Roghi di pneumatici e scontri con la polizia nel Paese dove i dollari non sono che un vago ricordo: “Ora vogliamo solo tornare a casa”
Il Libano sta attraversando la peggiore crisi dopo la guerra civile del 1975-1990. Non esistendo un esecutivo operativo, il presidente Michel Aoun e il premier Saad Hariri osservano impotenti un’inflazione di portata storica. Tra le vittime più colpite, circa 250 000 lavoratori migranti.
Il crollo della lira
Le autorità parlano di un’inflazione al 148%, analisti indipendenti affermano invece di percentuali superiori al 250. La lira libanese è ormai arrivata a perdere il 90% del proprio valore: a Marzo ogni dollaro valeva 15.000 lire, il rapporto più basso della storia. Settori come scuola, sanità ed energia sono in mani private nel panorama del liberismo più sfrontato.
Le città ridotte alla fame vivono una realtà in cui manifestazioni e proteste sono ormai all’ordine del giorno: si condannano aumenti dei costi su beni come benzina, grano, prodotti farmaceutici. Nel 2019 fu anche annunciata l’introduzione di una tassa sulle chiamate online tramite applicazioni come Whatsapp, che però fu subito ritirata a causa delle pesanti rivolte.
La situazione dei lavoratori migranti
A soffrire l’insostenibile situazione economica e finanziaria del Libano sono in prima linea i lavoratori migranti, sottoposti a un particolare sistema chiamato Kafala. Kafala significa, letteralmente, patrocinio: la sua diffusione risale agli anni ’50 e riguarda principalmente il settore domestico. Buona parte dei migranti è infatti di genere femminile e impegnata in impieghi come babysitter, governante e badante. Il Kafala prevede che ogni lavoratore dipenda direttamente da uno ‘sponsor’, solitamente il datore di lavoro, il quale garantisce il permesso di soggiorno. Ne derivano abusi di ogni tipo: ai dipendenti è spesso impedito di abbandonare il proprio impiego o cambiare datore di lavoro, e non è prevista alcuna tutela che possa salvaguardare da false accuse e maltrattamenti. Nella primavera del 2020 i dipendenti della azienda Ramco hanno iniziato a ricevere lo stipendio in valuta locale e non in dollari, comportando un ribasso di due terzi rispetto al guadagno originale.
Secondo le testimonianze di una donna originaria di Nairobi, coloro che speravano in una fonte di guadagno si ritrovano adesso nel mirino della crisi:
Sono venuta in Libano per rendere la mia vita e quella della mia famiglia migliore. Tutte qui hanno perso il lavoro, ora vogliamo solo tornare a casa. Abbiamo perso tutto, chi con la crisi economica, chi con il Covid. Ci siamo ritrovate a vivere in 16 in una stanza.
Particolarmente critica è la condizione delle domestiche etiopi. Molte di loro si trovano infatti bloccate a Beirut senza la possibilità di rimpatriare. Spesso le famiglie trattengono i passaporti delle lavoratrici, tra le quali molte minorenni, per evitare denunce che deriverebbero da mancati versamenti di stipendio.
Cosa fare
Cosa possiamo fare per cambiare almeno in parte la situazione in Libano? Donare, ascoltare le testimonianze di chi è vittima di soprusi sul lavoro, informarsi come si può. Ma soprattutto, imparare che se lavorare è un diritto fondamentale, lavorare umanamente lo è ancora di più.
Katherina Ricchi