Infantino: tutto tranne che tifoso
“Venghino, signori, venghino!”. Eccoci qui, siamo finalmente giunti al gran galà del calcio targato Qatar. Un evento che non ha subìto intralci, che non ha dato adito a polemiche e che rispetta ogni singolo valore che il calcio possa promuovere. Nelle parole di Gianni Infantino possiamo ritrovare la sintesi perfetta della traccia valoriale di questo mondiale in Qatar: “Oggi mi sento Qatariota, mi sento africano, mi sento arabo, mi sento gay, mi sento disabile, mi sento lavoratore migrante”. Parole al miele condite da un senso etico irreprensibile, volto a smascherare ogni possibile congettura. D’altronde, Infantino e la Fifa hanno sempre posto i diritti prima di ogni aspetto economico; bisogna riconoscere il rispetto nei confronti dei tifosi e la loro integrità morale. E non importa se l’omosessualità è ritenuta illegale in Qatar, non importa se l’Africa vera e la sua gente non è quella che siederà sugli spalti degli ecomostri costruiti appositamente, non importa se Infantino è totalmente inconsapevole delle sofferenze patite dai migranti o dai disabili. Lui ci si sente. Si sente anche arabo e qatariota, un arabo e un qatariota differente: incline all’uguaglianza e ai pari diritti. Possiamo dirlo? Gianni, sei un ribelle!
Del resto, uno svizzero che non è abituato a navigare nelle acque della neutralità non è un vero svizzero e Gianni dimostra di essere un abile rematore. Giacché queste affermazioni sono altro rispetto alle pigre argomentazioni improntate sul politically correct e tracciano una linea perbenista innovativa: la neutralità come atto di rivoluzione. Possiamo mettere nella stessa frase concetti, parole, simboli anche in netta contrapposizione, ma non è assolutamente un problema: includiamo tutti! Arriverà il momento in cui Infantino dichiarerà: “Oggi mi sento romanista, mi sento laziale, mi sento bostero, mi sento gallinero, mi sento israeliano, mi sento palestinese”. L’accozzaglia manifesta, la cecità perbenista. Eppure, solo un termine sarebbe bastato per migliorare la situazione: tifoso. Se Gianni Infantino fosse anche tifoso, allora certe cose non uscirebbero dalla sua bocca. A dirla tutta, forse non sarebbe neanche presidente della Fifa.
Le reclute dei fan in Qatar
“Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio”, scrisse Jorge Luis Borges. Frase maltratta quotidianamente dai calciofili e che, dall’alto dell’ignoranza di chi sta scrivendo in questo momento, dovrebbe essere rimodulata in: “Ogni volta che un bambino entra in uno stadio, lì ricomincia la storia del calcio”. Perché la simbologia che attribuiamo al calcio pone le sue fondamenta sulla passione del tifoso e non sulla palla in quanto mero oggetto di rappresentazione. E la Fifa non lo sa. La Fifa chiude gli occhi dinanzi l’amore, la sofferenza, l’attaccamento e il rito. Il tifoso è solo un pagante, un soggetto privo di emozioni utile solo alla quantità, al gregge. Pertanto, può essere sostituito, e l’organizzatore di Qatar 2022 l’ha fatto veramente! Con il benestare della Fifa ovviamente. Lungi da loro difendere l’interesse del tifoso.
Brasiliani, argentini, tedeschi, spagnoli, portoghesi; cortei per strada spinti dalla carica di tamburi, bandiere sventolanti e cori indecifrabili. Tutto molto bello: il più europeo o sudamericano di loro recitava a malapena il nome del paese di riferimento. Mediorientali reclutati per rappresentare i tifosi in festa per le strade della caratteristica Doha. D’altronde, in un paese socialmente, geograficamente, architettonicamente artificiale, servono persone prettamente artificiali. Una rappresentazione posticcia della passione che, infine, si pone come affronto ultimo alla consolidata ritualità e appartenenza dei tifosi. Apparenza e non sostanza: quei video lacerano ogni baluardo di resistenza appassionata.
Un appello ai tifosi di tutto il mondo: cambiate canale
La reazione è d’obbligo. Un piccolo atto di ribellione è ancora conservato nei cuori di ognuno di noi. Il tifoso non può competere con i “grandi sistemi”, ma può fiaccare l’egemonia del sistema semplicemente distaccandosene. Non guardate i mondiali: fatelo per chi è morto nella costruzione degli ecomostri, per chi non potrà esprimere il proprio amore e si sentirà minacciato dagli sguardi (e non solo) di chi “ospita”, fatelo per voi stessi e per l’anima del tifoso irrimediabilmente tranciata dalle tenaglie di Fifa e Qatar. Ma soprattutto, fatelo nel nome del calcio, perché se in questo sport vi è ancora un granello di giustizia sociale, di appartenenza e di passione, è giusto difenderlo.
Stiamo andando alla deriva e, forse, i mondiali in Qatar rasentano quell’iceberg che brancola nel buio dell’oceano pronto a frapporsi tra nave e mare. Una nave in naufragio ma ancora succinta di bandiere e striscioni, risonante di cori, portavoce di generazioni e di territorialità. Nella speranza che questo mondiale sia dimenticato il più presto possibile e bollato come uno dei peggiori, ci auguriamo che il calcio, dopo l’ennesimo scempio, possa finalmente ripartire dalle basi e concedere molta più importanza a coloro ai quali il calcio appartiene: i tifosi, proprietari della bellezza del pallone.
Lorenzo Tassi