Se ci addentriamo nel denso e screziato panorama dei migliori film tratti dai libri ci corrono incontro mentalmente i titoli più vari. Dall’ormai acclamatissima saga cinematografica legata al nome del maghetto più ardito di sempre assemblato dalla penna di J. K. Rowling – si pensi a Harry Potter e la pietra filosofale del 2001; Harry Potter e la camera dei segreti del 2002; Harry Potter e il prigioniero di Azkaban del 2004; Harry Potter e il calice di fuoco del 2005; Harry Potter e l’Ordine della Fenice del 2007; Harry Potter e il principe mezzosangue del 2009; Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 1 del 2010 e infine Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 2 del 2011 – al cult indiscusso diretto nel 1996 da Danny Boyle, Trainspotting, ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore scozzese Irvine Welsh; al più celebre e drammatico film marziale di sempre, quello liberamente ispirato al Cuore di tenebra di Conrad e diretto nel lontano 1979 dalla mano sopraffina di Francis Ford Coppola, Apocalypse Now.
Giocando in casa Coppola è doveroso tessere le lodi dell’opera prima con cui l’avvenente e talentuosa figlia del mastro regista, Sofia Coppola, si è avviata alla carriera del padre. Corre l’anno 1999 e il film in questione è Il giardino delle vergini suicide, pellicola tutta al femminile, la cui abbagliante bellezza è stata progettata a partire dal romanzo Le vergini suicide dello scrittore statunitense Jeffrey Eugenides.
Oltre a rilevare l’inedita grazia e attenzione dell’abilità registica della Coppola, il film si nutre – per ricomporre la tanto drammatica quanto affascinante storia che avvolge il mito delle sorelle Lisbon, enigma femminino per antonomasia – dello sguardo e dell’immaginario tutto al maschile del vicinato che ne riporta in vita ogni mutamento. Un film sul paese sconosciuto e sconfinato del potere femminile, e sulla dimensione fertile dell’adolescenza, giardino in cui come in un sogno ci si muove per provocare la vita.
Ma migrando ai territori più vasti e spericolati dell’azione è d’obbligo citare, seppure parzialmente, l’avvincente leggenda libraria e cinematografica dell’agente segreto più osannato di sempre, James Bond. Ci richiamiamo in particolare a Una cascata di diamanti, pellicola diretta nel 1971 da Guy Hamilton tratta da un romanzo di Ian Fleming, scrittore geniale che come la sua eroica creatura nasconde un passato da agente segreto.
Il film che si propone di inscenare una nuova e appassionante bondiana missione segreta – risalire al responsabile di un grave traffico illecito di diamanti – resta memorabile in quanto fine della Golden Age bondiana, quella fase in cui i film su Bond brillano di una luce tutta particolare determinata dalla presenza di Sean Connery che proprio con questo episodio si congederà per sempre dall’avventura bondiana. Il film eletto da riguardare per tutti i nostalgici del primo, unico e inimitabile James Bond.
Per concludere con un film curioso, aggraziato e particolarmente recente ci rifacciamo al regista indiano Ritesh Batra già noto al grande pubblico per il successo di The Lunchbox del 2013 e Le nostre anime di notte del 2017. Parliamo del film The Sense of an Ending uscito nelle nostre sale lo scorso ottobre e perfidamente tradotto in italiano con il titolo L’altra metà della storia che fa passare in sordina il senso compiuto del film.
La pellicola liberamente ispirata allo struggente romanzo dell’inglese Julian Barnes Il senso di una fine, Man Booker Prize 2011, investe l’esistenza di Tony Webster, pensionato la cui amena e tranquilla vita viene sconvolta da una lettera che ha a che vedere con un passato ormai remoto. Arricchito dall’intensa interpretazione di Jim Broadbent e Charlotte Rampling la visione di The Sense of an Ending ci offre l’opportunità, attraverso il il dipanarsi della vita di Tony, di riflettere e ripensare il nostro accaduto confrontandoci con l’inevitabile ammissione di essere soltanto ciò che raccontiamo. “La nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato”.