Le radici delle mangrovie rassomigliano a un arabesco di vasi capillari nei cui canali fluisce la linfa dell’ecosistema. I manglares, o mangrovie, sono boschi senza pari, primigeni e ameni in egual misura. La consonanza delle acque e delle sue eterne maree dà eufonia e tempra ai monumentali mangles. La sua rizoma, come una compagnia di bailaoras volteggia in superficie ma si inabissa nella salinità delle sue acque. Un ecosistema che possiede una plasmabilità fisiologica, naturale e, per questo, più solida. Nonostante la potenza primordiale, però, le mangrovie stanno morendo. Faticano ad ossigenare la madre creatrice. Periscono sotto la noncuranza di una mano feroce, avida, umana. Quella umana, di fatto, è l’unica razza capace di autodistruggersi. Lo hanno inteso bene gli abitanti di Barra de Santiago. Nella piccola oasi a due ore di auto della capitale, El Salvador, dal 2012 diverse organizzazioni costituite perlopiù da donne e pescatori, hanno iniziato ad occuparsi della conservazione delle mangrovie.
La conservazione delle mangrovie per preservare l’ecosistema
Anche se non ci piace pensarlo, siamo esseri finiti, limitati, caduchi. Da qualche tempo, anche per effetto di incontrovertibili segnali, si è appalesata la certezza che ad avere una scadenza programmata, scandita da un funesto ticchettio, non è la singola vita ma l’intera razza umana. L’unica, tra quelle che abitano il pianeta, ad essere capace di distruzione e stermini. Non una divinità inesorabile e spietata, dunque. E nemmeno una natura matrigna con le sue leggi ineluttabili. Una mano terrestre con la sua brama di controllo, di dominio, di assoggettamento. Eppure il creato ci prova a preservarci, invischiandosi in un rapporto tossico come quello che lega un narcisista a una donna affetta dalla sindrome di Wendy. Tra le specie vegetali, le mangrovie si distinguono, oltre che per il rigoglioso splendore, per le virtù delle quali la natura le ha dotate.
I manglares, infatti, sono capaci di conservare fino a 10 volte più anidride carbonica per ettaro rispetto alle consorelle foreste terresti. Questi assimilano il gas inerte e lo custodiscono nel terreno acquifero. Ma le loro proprietà non si esauriscono di certo qui. Specie per le comunità costiere dell’America centro-meridionale, perpetuamente devastate da uragani e altre perturbazioni climatiche spesso catastrofiche, le mangrovie rappresentano un’ancora di salvezza. Queste, infatti, fungono da barriera contro le tempeste tropicali e dalle piene improvvise che, ciclicamente, si abbattono su El Salvador. Se venissero utilizzate a dovere, da un distopico uomo resosi edotto del rischio che stiamo correndo, la conservazione delle mangrovie diventerebbe un’urgenza irrinunciabile.
L’impatto delle attività umane sulla conservazione delle mangrovie
La sopravvivenza di queste specie ecotoni, creature di sangue misto, con metà essenza marina e l’altra terrestre, è minacciata dalle attività di agricoltura, pesca e approvvigionamento di legnami. Sommandosi agli effetti già proverbialmente nocivi dei mutamenti climatici, la loro distruzione comporta seri rischi per l’ecosistema. Secondo l’organizzazione nata a sostegno della preservazione della biodiversità di piante e animali, la Conservation International, quando le foreste di mangrovie o altri ecosistemi somiglianti vengono abbattuti, rilasciano nell’atmosfera l’anidride carbonica che hanno custodito per secoli, diventando fonti di gas serra. Dalle stime, circa un miliardo di tonnellate di CO2 viene effuso annualmente da ecosistemi costieri deturpati. Per intenderci, il detrimento si potrebbe paragonare alle emissioni di automobili, autobus, aerei e barche registrate negli Stati Uniti nel 2017.
Secondo il Ministeiro de Medio Ambiente y Recursos Naturales (MARN) di El Salvador, i manglares dovrebbero essere terreni paludosi, caratterizzati da una elevatissima bio-diversità e indeterminate ramificazioni idrologiche. La realtà, invece, è che negli ultimi 40 anni, molti manglar hanno subito sconvolgenti mutazioni, dovute essenzialmente all’urbanizzazione spasmodica, alla variazione climatica e alla deforestazione. L’analisi mostra, per di più, che, a livello nazionale, tra il 1950 e il 2013, prendendo in considerazione i 13 ecosistemi di mangrovie astanti le coste di El Salvador, questi hanno perduto circa il 60% della copertura territoriale. La riduzione è drammatica: si passa dai 100 mila ettari precedenti, ai 40 attuali.
L’unione di donne e pescatori salverà le mangrovie?
A pochi passi dal confine con il Guatemala, sulla costa occidentale dello Stato salvadoregno, esiste una incontaminata riserva di pace. Barra de Santiago è una costa tropicale impreziosita da foreste di mangrovie. Un regno quasi fiabesco dove prosperano coccodrilli, coralli e attività di pesca. Nel sito in cui la foresta di mangrovie è stata ridotta per più della metà, dal 2012 l’unione di donne e pescatori locali, sorretti dal sostegno di organizzazioni internazionali, cerca di difendere e preservare la propria casa, e tutti i suoi conviventi. A dare avvio all’inesorabile perimento della foresta di mangrovie è stato un evento naturale: il catastrofico uragano Fifi abbattutosi sulla costa salvadoregna nel 1974. La pedata definitiva, però, come sempre accade, l’ha data l’uomo. Il disboscamento, fin da allora già perpetrato, ha permesso alle abbondanti piogge di provocare lo straripamento del fiume Paz, provocando grossi danni all’ecosistema e alle stesse strade di Barra de Santiago.
Se una mano toglie, fortunatamente, ce ne è sempre una che dà. L’Associazione delle donne nello sviluppo comunitario di Barra de Santiago (AMBAS) e altre ONG locali si sono, infatti, caparrate l’impegno di sensibilizzare la comunità sull’importanza dell’ecosistema di mangrovie nell’estuario del fiume Paz. Le soldatesse dell’ecosistema hanno indossato stivali di gomma e solcato il terreno intorno alla palude per dragare nuovi canali d’acqua, potenziando, così, il sistema idrologico del sito. Hanno, poi, piantato nuovi semi di mangrovie, con l’ obiettivo di ripristinare 42 ettari di foresta entro il 2024.
Buone prassi per il futuro nella conservazione delle mangrovie
Le organizzazioni locali, composte dalla vigoria di braccia femminili e dalla perseveranza dei pescatori, sono finora riuscite a ripristinare nove ettari di mangrovie, supportati anche dall’Unione internazionale per la conservazione della natura. Nonostante gli ostacoli, delineati da uomini scellerati e famelici impegnati nel narcotraffico e nella contaminazione delle poche acque rimaste, sono stati raggiunti grandi traguardi. Parliamo, nel concreto, di un commercio biologico, di orti ecologici, vivai e una banca dei semi. Un encomiabile esempio di ecofemminismo e giustizia fiscale.
Un supporto essenziale è provenuto dal Regional Coastal Biodiversity Projec, che da anni si impegna a salvaguardare e rafforzare le economie locali. Lo fa promuovendo la multi-pesca artigianale, sostenendo gli sforzi attuati per limitare l’inquinamento idrico e proteggendo l’ecosistema delle mangrovie; affrontando in questo modo anche la carenza di opportunità di sostentamento per la popolazione locale. Il successo di questo sistema potrebbe derivare proprio dalla collaborazione delle comunità locali. L’obiettivo ad ampio raggio delle organizzazioni internazionali è, di fatti, quello di lasciare agli autoctoni delle buone prassi da seguire e riprodurre. D’altronde, l’esempio di influsso plastico ce lo concede proprio la mangrovia, inamovibile abitante di un paradiso di fuoco.
Martina Falvo