Di recente, Nairobi ha dichiarato che i campi di rifugiati del Kenya potrebbero diventare centri urbani permanenti. Il governo ha già istituito un comitato direttivo per allineare il piano di transizione dei rifugiati con le priorità di sicurezza nazionale. Nel Paese del Corno d’Africa hanno trovato rifugio oltre 700mila persone fuggite da persecuzioni, violenza e siccità.
Dal 2022, la situazione nei campi di Dadaab e Kakuma è del tutto fuori controllo e il governo centrale fatica a contenere l’emergenza. Per promuovere maggiore sicurezza e continuare a coprire gli obblighi umanitari verso i rifugiati, Nairobi ha dichiarato che i campi di rifugiati in Kenya diventeranno centri urbani permanenti.
Nairobi concederà ai rifugiati un piano quinquennale e documenti legali d’identità con cui le persone potranno validamente condurre attività lavorative che gli consentiranno di generare reddito.
In questo modo, gli agglomerati di tendopoli e abitazioni precarie e insalubri che caratterizzano i campi profughi kenyani potrebbero presto trasformarsi in centri urbani permanenti. Il governo di Nairobi intende promuovere iniziative private di produzione e commercio, investendo soldi e chiedendo a donatori disponibili di aiutare a erigere servizi sociali che faciliteranno la protezione e la sicurezza sociale dei campi.
Il piano, soprannominato Nashiriki che in lingua swahili significa “io voglio cooperare”, dovrà garantire ai rifugiati e ai richiedenti asilo l’aiuto umanitario necessario. Soltanto così, «lo sviluppo andrà a beneficio di tutte le parti coinvolte. Le agenzie di aiuto dovranno apportare i necessari accorgimenti nel pianificare l’assistenza, adattandosi al nuovo modello di insediamento», ha dichiarato il commissario kenyano per gli affari dei rifugiati John Burugu.
Un primo passo verso l’attuazione del piano è stato già compiuto attraverso il riconoscimento di Kakuma come comune della contea Turkana. E il governatore di Garissa, Nathif Jama Adam, ha dichiarato che farà altrettanto per Dadaab.
Affinché i campi di rifugiati in Kenya possano diventare dei centri urbani permanenti, il governo ha creato un Comitato direttivo intergovernativo per adeguare il piano di transizione dei rifugiati con le priorità di sicurezza nazionale, incassando il supporto delle agenzie delle Nazioni Unite e degli istituti finanziari internazionali che lavorano da sempre al fianco dei rifugiati.
In Africa subsahariana quasi la metà degli sfollati nel mondo
Secondo i dati raccolti dal 2023 Global Report on Internal Displacement e pubblicato dal Centro di monitoraggio degli spostamenti interni (Idmc) del Norwegian Refugee Council, soltanto nel 2022 gli sfollati provenienti dall’Africa subsahariana sono stati 31,7 milioni.
La maggior parte di queste persone (28 milioni) sono state costrette a lasciare i rispettivi Paesi a causa dei numerosi conflitti in corso nel continente, mentre i restanti 3,7 milioni hanno abbandonato i territori d’origine a causa della siccità, delle inondazioni e di altre calamità naturali.
Il numero maggiore di sfollati è stato registrato in Repubblica Democratica del Congo (5 milioni 686mila), Etiopia (3 milioni 852mila), Somalia (3 milioni 864mila) e Sudan (3 milioni 553mila).
Il rapporto pubblicato lo scorso 11 maggio ha messo in evidenza la relazione tra la variabilità climatica e la complessità dei fenomeni migratori in una delle zone più povere del pianeta, dove lo stile di vita e i mezzi di sussistenza dipendono interamente da sistemi economici deboli e poco strutturati.
Nel rapporto si legge che “le crisi degli spostamenti stanno crescendo in numero e complessità, in seguito a fattori come l’insicurezza alimentare, i cambiamenti climatici e i conflitti crescenti e prolungati, che aggiungono nuovi elementi al fenomeno”. E per questa ragione, “maggiori risorse e ulteriori ricerche sono essenziali per aiutare a comprendere e rispondere meglio alle esigenze degli sfollati” come ha scritto la direttrice dell’Idmc, Alexandra Bilak.
La situazione nel Corno d’Africa
Prendiamo ad esempio il caso del Corno d’Africa. Nel 2022, la regione ha affrontato la sua siccità più lunga e più grave – dopo cinque consecutive stagioni di piogge al di sotto della media – che ha provocato l’esodo di 2,1 milioni tra Somalia, Etiopia e Kenya.
Lo stravolgimento climatico provocato dalla mancanza d’acqua ha inciso direttamente sullo stile di vita della popolazione dei Paesi del Corno d’Africa, rendendo molto difficile attività come l’allevamento e l’agricoltura. Nel 2022, nel Corno d’Africa la siccità ha fatto oltre 40mila morti e ha messo in ginocchio più di 4 milioni di persone, arrivando a colpirne indirettamente altri 150 mln come dimostra un’analisi del World Weather Attribution.
In Somalia, la siccità e i conflitti in corso che stanno dilaniando il Paese dal 2006, hanno provocato oltre 1,1 milioni di sfollati, il più alto numero dal 2017. Stessa situazione anche in Etiopia dove le violenze nelle aree del Tigray, dell’Afar e dell’Oromia hanno fatto registrare 686mila spostamenti nel 2022.
In Kenya, le aree di Garissa e Isiolo così come le contee di Marsabit e Turkana hanno visto l’esodo di 316mila persone, mentre la siccità ha colpito 4,5 milioni di abitanti in tutto il paese.
Perché Nairobi vuole trasformare i campi di rifugiati in Kenya in centri urbani?
In Africa, crisi sociale e crisi ambientale rappresentano le due facce di un’unica grave emergenza. Nella fascia subsahariana e nel Corno d’Africa i disastri delle guerre e del cambiamento climatico si intrecciano ogni giorno incrementando le sofferenze di milioni di persone.
Il Kenya è il quinto più grande paese in Africa ad ospitare rifugiati e il 13° a livello mondiale. Ad oggi, sono oltre 700mila le persone che hanno trovato asilo nei campi di rifugiati di Dadaab e Kakuma, fuggendo da persecuzioni, violenza e siccità.
Tuttavia, le controversie sorte negli ultimi anni riguardo alla gestione dei rifugiati, hanno portato il governo keniano a discutere più volte della loro chiusura. Per Nairobi il sovraffollamento nei campi profughi è diventato ormai ingestibile e rappresenta un grave rischio per la sicurezza nazionale. Infatti, per quanto si cerchi di accogliere gli sfollati nelle aree predisposte allo scopo, molte persone si stabiliscono ugualmente ai margini del campo.
In questi distretti periferici, la proliferazione di malattie infettive rende le operazioni di primo soccorso molto più difficili. Soltanto ad ottobre 2022 il neoministro keniano della salute, Susan Wafula, aveva allertato il governo della presenza di 61 casi di colera in ben sei distretti del Paese, alcuni dei quali confinanti con l’area del campo profughi di Dadaab.
Nelle intenzioni del governo keniano, quando i campi di rifugiati in Kenya diventeranno centri urbani permanenti, coloro che vi abitano sperimenteranno per la prima volta il passaggio dalla dipendenza dell’aiuto umanitario all’autosufficienza.
Gli antefatti: la dichiarazione congiunta del governo keniano e dell’UNHCR
Le autorità keniane sostengono da tempo che i campi costituiscono un rifugio sicuro anche per i militanti del gruppo terroristico somalo al-Shabaab. In passato, il governo di Nairobi aveva sollevato più volte la questione dell’introduzione di armi nelle aree di confine vicino ai centri di accoglienza dei rifugiati.
E proprio in seguito all’attacco del gruppo terroristico al-Shabaab all’università di Garissa in cui vennero uccisi almeno 148 studenti, il Kenya ha firmato un accordo con la Somalia e l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) teso ad una gestione dignitosa del fenomeno dei rifugiati.
La firma del documento era arrivata dopo che il governo aveva reso nota l’intenzione di predisporre la chiusura dei campi per i rifugiati. L’accordo prevedeva la possibilità per i profughi provenienti dai territori dell’Africa orientale di ricevere gratuitamente un permesso di lavoro e di integrarsi nelle comunità keniane o di fare ritorno al proprio Paese di origine.
Tuttavia, la mancanza di un ambiente favorevole negli altri Stati del corno d’Africa (specie in Somalia ed Etiopia) e l’aggravarsi della crisi ambientale nel Sahel hanno di fatto reso impossibile il ritorno dei rifugiati a casa, limitando fortemente anche il loro inserimento nel Paese d’accoglienza.
Tommaso Di Caprio