Helen Adams Keller , Il mattino del possibile
Helen Adams Keller nasce a Tuscumbia, in Alabama, nel 1880; ad appena 19 mesi, a causa di una probabile meningite, diverrà presto- e in modo irreversibile – sordo-cieca. Nell’impossibilità di comunicare in modo “convenzionale”, la bambina inventa una serie di gesti, un rudimentale e ostinato linguaggio dei segni tutto suo.
Tra il 1886 e il 1887, la madre, Kate Adams Keller, legge the “American Notes” di Charles Dickens, dove è narrata la storia di Laura Bridgman, la prima donna sordo-cieca a raggiungere un buon grado di istruzione attraverso la dattilologia, e così decide, grazie anche all’aiuto di Graham Bell, di avviare la piccola Helen ad un percorso formativo presso il Perkins Institute di Boston, dove aveva studiato anche la Bridgman.
La scuola affida Helen ad Anne Sullivan, ex studentessa del Perkins, anch’ella ipovedente; nascerà tra loro un sodalizio lunghissimo e straordinario. La Sullivan chiede alla famiglia di trasferire lei e la piccola Helen in un piccolo fabbricato immerso nel giardino della tenuta Keller, e lì avvicinò la bambina all’uso disciplinato e caleidoscopico del tatto. Cominciò facendo scorrere semplicemente dell’acqua tra le sue mani: da quel momento la curiosità di Helen si tramuta in un sorgente inesauribile: non solo inizia a comunicare grazie al metodo “Tadoma” – attraverso il tocco del viso e della mani dell’interlocutore-, ma con l’uso del Braille impara il tedesco, il francese, il greco e il latino, sino ad arrivare, con ostinata e straordinaria perseveranza, a riappropriarsi dell’uso della parola.
Le forme di linguaggio di Helen Keller diventano – tutt’altro che paradossalmente – estese, ben più profonde e intime di quelle che noi definiremmo normali. Impegnano e coinvolgono tutto il suo essere: dalla elementare e completa fisicità del tatto sino a giungere alla distensione della parola, riescono ad espandersi e coinvolgersi vicendevolmente. Tutto il corpo di Helen Keller è comunicazione, è linguaggio.
Nell’inesaurbile volontà della scrittrice di comunicare, di raccontare al mondo di “essere al mondo” risiede la sua originalissima conquista letteraria, quella conquista che le permetterà di colmare quella distanza che separa la “nostra prima sillaba balbettata alla grandezza che inonda il nostro pensiero nel leggere un verso di Shakespeare”.
Nulla nella lunghissima vita di Helen Keller è un miracolo: non lo è la sua voglia di dire e “dirsi”, di conoscere, non lo sono il suo talento letterario e quello oratorio, tantomeno il suo impegno civile e politico a favore dei diritti dei disabili e delle minoranze, che la porterà ad esser “malvista” per le sue posizioni socialiste.
Se archiviassimo con rassicurante leggerezza come un’unica e fortuita disobbedienza all’“impossibile” la testimonianza di vita della Keller negheremmo a noi stessi il distendersi delle possibilità, l’opportunità sempre in fieri di un’ oltranza, di un’ulteriore amplificarsi del nostro sentire di essere al mondo, di comunicare e di aprirci, non potremmo “toccare” e pensare noi stessi oltre noi stessi, un’occasione concessa a tutti, come scrive la stessa Keller in Ottimismo: “Poco importa quanto tardo, avaro o saggio sia un uomo. Egli sa che la felicità è indubitabilmente giusta.”
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