Capelli e identità: la testimonianza di “Hair love”

Era il 1997 quando sul palco di Sanremo, per la categoria giovani, un appena trentenne Niccolò Fabi si esibiva con i suoi ricci e qualche ciuffo rasta presentando un originalissimo testo dal titolo: “Capelli”. Il cantautore romano specificava, nella seconda strofa della canzone, di non essere partito in motocicletta e di non essersi pettinato con le bombe a mano; “non ho messo le dita dentro la spina” confessava e ripeteva serafico nel ritornello “io vivo sempre insieme ai miei capelli”.

A quasi vent’anni di distanza da quell’episodio, è un caloroso applauso quello che accoglie sul palco degli Oscar 2020 i produttori Matthew A. Cherry e Karen Rupert Toliver, vincitori del premio per il corto di animazione intitolato “Hair love”. Insieme ai ringraziamenti commossi indirizzati ai collaboratori del progetto, entrambi gli autori hanno aggiunto parole capaci di accendere un faro e portare i temi forti già espressi dal solo cortometraggio ad un livello più profondo e universale.

La Toliver racconta della ferma convinzione che ha animato il corto: l’importante campagna per la rappresentazione della comunità afroamericana, in special modo nei cartoni animati che, prima dei film, modellano le menti dei bambini e sono i filtri attraverso i quali immaginiamo da piccoli le nostre vite. Quei ricci che avevano portato fortuna alla carriera di Niccolò Fabi, come veicoli di altri significati ritornano al centro di un dibattito che interessa la delicata opera dei due produttori, in cui dapprima osserviamo, un po’ divertiti un po’ commossi, la lotta di una bimba contro i propri capelli ribelli, poi quella della sua mamma che invece li ha persi tutti perché in chemioterapia.

Molta strada è evidentemente stata percorsa dai primi classici d’animazione, in cui la pellicola invitava all’identificazione con una principessa, preferibilmente bianca e bella, all’interno di ambienti fantastici e atemporali. “Hair Love” è un’opera d’arte figlia del suo tempo, e questo non solo perché la protagonista è una piccolina di colore ma perché sua madre è una youtuber e il contesto in cui vive non è quello “protetto” di un bosco incantato o di un castello ma la realtà quotidiana di una famiglia in cui si fa esperienza della malattia. L’empatia immediata che si genera nei confronti dei personaggi della storia non è qualcosa di formale e legato agli stereotipi dell’incanto e del sogno ma ha una natura sostanziale ed è dunque molto più intensa e profonda.

Nel mondo moderno, purtroppo, i bambini non sono estranei a malattie come il cancro e, allo stesso modo, hanno molta più familiarità di tanti adulti con strumenti come l’i-Pad che non sono assolutamente stonati all’interno di corti come “Hair Love”. Nell’arco di una decina di minuti lo spettatore è invitato all’interno di una casa in cui gli stereotipi di genere sono genuinamente scardinati. È infatti il padre ad adempiere a mansioni che siamo generalmente abituati a riferire alle donne, come la cura dei capelli indomabili della figlia; in più il quadro domestico, prima del colpo di scena finale, si compone di un solo genitore con la sua bambina, e la scena conclusiva è assolutamente innovativa nel suo presentare, all’interno di un cartone pensato per i più piccoli, un ambiente spaventoso quale è l’ospedale come setting dell’atto più felice dell’intero corto.

Durante la premiazione di “Hair love” agli Oscar, a fare eco alle parole di Karen R. Toliver, è seguito l’intervento di Hair love ultima voceMattew A. Cherry, che ha insistito sull’importanza del problema relativo alla normalizzazione dei capelli afro ricordando la presenza in sala di De’Andre Arnold, suo ospite speciale, e menzionando il CROWN Act, che proibisce la discriminazione a scuola e nei luoghi di lavoro sulla base del giudizio in merito alla capigliatura.

La senatrice Holly J. Mitchell è colei che ha introdotto la legge, approvata per prima in America nello stato della California, a tutela della conformazione naturale dei capelli, con riferimento particolare alle chiome afroamericane. Troppi erano diventati i casi di licenziamento o mancata promozione aziendale giustificati in rapporto al look “etnico” degli impiegati interessati. Meno di un mese fa si è poi verificato il caso che ha visto protagonista De’Andre Arnold, studente texano al quale era stata preclusa la partecipazione al ballo scolastico e alla cerimonia dei diplomi a meno che non avesse rinunciato ai propri dreadlock, portati dal ragazzo perché tradizione legata all’identità culturale della famiglia del padre, originario delle isole Trinidad. Ignorare il patrimonio tramandato da differenti storie rende, a tutti gli effetti, la ghettizzazione in base alla struttura dei capelli una discriminazione di tipo razziale.

Esiste evidentemente un legame tra identità e capelli, non si spiegherebbero altrimenti i versi di un autore come Primo Levi che in “Se questo è un uomo” scrive:

“Considerate se questa è una donna,

senza capelli e senza nome

senza più forza di ricordare

[…]”

Il nome, ciò che più ci definisce e appartiene fin dalla nascita, ha lo stesso valore attribuito ai capelli nel designare i simboli dell’individualità perduta dalle donne nei campi di sterminio nazisti.

Sin dall’antichità il filosofo greco Epitteto invitava i suoi seguaci a conoscere prima di tutto loro stessi e a ornarsi di conseguenza, in modo da creare continuità tra mente e corpo. Senza addentrarsi nella filosofia, sarà quotidianamente capitato a tutti di ritrovarsi a tormentare nervosamente una ciocca di capelli per scaricare la tensione o di rendersi conto, subito dopo averlo fatto inconsapevolmente, che ci si è toccati i capelli o nascosti dietro di essi in una situazione di imbarazzo. È ormai diventato luogo comune che le donne, al termine di una relazione amorosa, cercano di tagliare con il loro passato nel più concreto dei modi, tagliando le loro chiome, per trasferire l’esigenza di rinnovamento a tutta la testa.

Il tempo che uomini e donne dedicano quotidianamente alla cura dei capelli conserva la memoria dei gesti legati all’infanzia, alle carezze e alle coccole genitoriali, e la storia è attraversata da mode e manifestazioni la cui espressione è passata anche attraverso le acconciature, basti pensare ai figli dei fiori, alla tonsura dei chierici o alle creste punk.

L’autore del cortometraggio Mattew Cherry ha ricordato come nel 2016 avesse scritto su Twitter una call indirizzata ad artisti esperti di 3D per realizzare un’idea da lui definita, in tempi non sospetti, “in grado di vincere un Oscar”. La risonanza di cui godrà l’opera a seguito della recente vittoria sarà sicuramente utile per la diffusione del messaggio di un progetto nella cui qualità è stata riposta tanta fede da parte del suo creatore e di tutti i membri coinvolti nella realizzazione.

“Hair love” è in grado di ricordare il valore identitario espresso dai capelli e di rievocare, attraverso ciò, il diritto, per nulla frivolo e mai banale, che ciascuno ha alla libertà e all’esistenza nella piena comunicazione della propria speciale unicità. Nessuno dovrebbe mai rinunciare a quella che Fabi cantava come “la parte di me che mi assomiglia di più”, e che questo messaggio sia veicolato da un corto animato per bambini è specchio della modernità dei tempi e riflette gli ideali forti con i quali si formeranno le nuove generazioni.

Martina Dalessandro

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