Re Artù ha ispirato registi, artisti e scrittori fin dal buon vecchio Thomas Malory, che prese la materia del mito e la rese romanzo. Guy Ritchie (1968), cockney nel sangue e regista di Snatch e degli ultimi Sherlock Holmes con Robert Downey Jr. e Jude Law, plasma la leggenda intingendola con il ritmo di strada, sanguigno come gli è congeniale. Ma la storia e la leggenda non fanno per tutti. Soprattutto se nelle proprie corde non si hanno il soprannaturale e il mistico.
Il nostro Artù (Charlie Hunnam), novello Mosè, vede da bambino i suoi genitori messi a morte da Vortigern (Jude Law), zio stregone che non solo ruba la corona ma massacra la stirpe dei maghi per avere da solo il potere magico. Salvato dalle acque, trovato da un gruppo di prostitute della capitale, lui cresce pieno di street knowledge, con un gruppo di fidatissimi come cerchia.
Ma quando viene condotto a sostenere la prova obbligatoria per estrarre la spada nella Roccia, lui si rivela il vero erede al trono, il figlio scomparso del vecchio re Uther Pendragon (Eric Bana). La resistenza, capeggiata da una maga molto particolare (Astrid Bergès-Frisbey) e Sir Bedivere (Djimon Hounsou), si mette alla sua ricerca.
Ritchie ha creato un grande mix dei personaggi del mito rovinando con fare esplosivo la tenuta del ritmo e della consistenza emotiva. La fotografia è piuttosto piatta, senza brivido alcuno. Pochi i momenti intensi, soprattutto nel bellissimo inseguimento a Londinium e nella morte del migliore amico del protagonista, Mangiagalli (Neil Maskell).
La vicenda, ricca di eventi, ha intere sequenze di montaggio alternato ripetuto ed incessante, in cui parti che altri registi avrebbero reso essenziali sono spezzate e raccontate come in un thriller adrenalinico con tanto di colpo in banca. L’ironia smorza di molto l’epicità e le sequenze oniriche sono sull’orlo del kitsch per il loro eccessivo mostrare ed esaltare. I personaggi di contorno risultano mal sfruttati e questo lo si vede soprattutto nel personaggio di Astrid Bergès-Frisbey, attrice luminosa, vista già attiva in Italia con Elio Germano in Alaska di Claudio Cupellini nel 2015.
Ma il problema non sta solo nella regia senza senso dell’equilibrio: sta anche nella sceneggiatura di Joby Harold e David Dobkin. Il film è troppo parlato. A colpire davvero nel segno sono i fantastici paesaggi inglesi, aspri ed immensi e le musiche di David Pemberton, epiche con un accenno di folk inglese. Questo film si prospetta il primo di una serie di 6 film sul mitico re inglese con la regia di Ritchie. Speriamo che nei prossimi riesca a mantenere quel controllo e quell’eleganza che si poteva ritrovare nei suoi “Sherlock”.
Antonio Canzoniere