Da mezzo secolo ormai non si sente più parlare la Chiesa del destino post-mortem dell’uomo. Ma anche prima, bisogna ammettere, l’insegnamento cattolico era così piatto e sommario su le cose ultime, da farle svanire nella coscienza dei fedeli come miti superati e puerili. Peggio, da far spegnere l’interesse per il Paradiso e l’aspirazione ad entrarvi. “A far che, a parlare con Don Bosco e Bernadette? Sai che noia”, è stata a lungo una scipita freddura dei miscredenti da caffè.
Gianluca Marletta, nel suo saggio “, L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei Viventi – Considerazioni sull’Origine e il Fine dell’essere umano” (Irfan Edizioni, 130 pagine, 12 euro) ha recuperato nella sua affascinante complessità l’integralità della conoscenze di cui la Chiesa è tuttora depositaria, magari a sua insaputa. Lo ha fatto ricorrendo spesso a tradizioni di altre culture, con ampie citazioni di René Guénon (che piaccia o no, è un riferimento obbligato in questa sfera delle religioni comparate), il che lo espone, credo, ad accuse di gnosticismo o esoterismo. Errore: le conoscenze sul destino ulteriore dell’uomo, prima della sua attuale estrema materializzazione, erano un patrimonio comune e perenne di tutte le culture tradizionali; espresse in linguaggi diversi ma in simboli spesso convergenti, conoscenze “di derivazione germanica, celtica e orientale” diventano utili e persino necessarie per illuminare e recuperare le dottrine “perfettamente cristiane” che continuano ad esistere, ormai mal comprese, nel cattolicesimo e che nei suoi testi sono ben esplicite – purchè li si sappia leggere con l’occhio spirituale.
Voglio fare un esempio che Marletta non fa: vedere come un pagano, Lucrezio, sia stato capace di sintetizzare, in quattro limpidi eleganti esametri, una intera sapienza – allora comune e condivisa – sullo “stato umano” e le sue diverse “modalità”:
“Bis duo sunt homines, caro, umbra, manes, spiritus; quator ista loci bis duo suspiciunt; terra tegit carnem, tumulum circumvolat umbra, orcus habet manes, spiritus astra petit”.
La carne finisce sotto terra; l’ombra che svolazza attorno al sepolcro, corrisponde a ciò che la dottrina rabbinica chiama “respiro delle ossa”, gli “obot”, legati al cadavere, e forse il Ka egizio; l’Orco è palesemente quel che gli ebrei chiamano Sheòl, il luogo in cui “le anime” finiscono quando hanno esaurito le loro possibilità materiali con la vita fisica. E’ bene sottolineare che lo Sheòl, benché “infero”, non è necessariamente coincidente con l’inferno, ossia la Gheenna, luogo della “seconda morte” dove il “verme non muore”. Quanto poi a cosa intenda Lucrezio per “manes”, lasciamo la parola a Sant’Agostino, che non si fa alcuno scrupolo a citare un altro pagano, e particolarmente sospetto, perché misteriosofo, iniziato ad Iside e processato per magia: Apuleio.
“ [Apuleio] afferma che anche l’anima umana è un daimon e che gli uomini divengono Lari se hanno fatto del bene, fantasmi o spettri se hanno fatto del male e che sono considerati dèi Mani se è incerta la loro qualificazione. » La città di Dio IX,11
Personalmente sono stato ancor più colpito da come Lucrezio smentisce la vera e propria superstizione dell’uomo d’oggi – quella di avere, anzi di essere un “Io” – mostrando come l’Io empirico sia un aggregato che si decomporrà dopo la morte, posizione che lo avvicina vistosamente al Buddhismo. Stupefacente poi il fatto che Lucrezio, un epicureo, ossia in teoria un ateo materialista del tempo, sappia che “spiritus astra petit”: dopo la morte, lo Spirito torna al Cielo. Lo Spirito che è la vera scintilla divina, quando l’aggregato si scompone, torna da dove è venuto, perché non appartiene all’individualità umana – a meno che essa non possa dire, come Paolo di Tarso, “non sono più ‘io’ che vivo, ma Dio vive in me”: con l’estinzione eroica dell’io empirico, infatti, il singolo, alcuni grandi santi conseguono l’Identità suprema, l’identificazione senza residui con Dio.
Marletta distingue questo stato supremo dalla “Salvezza”, condividendo l’affermazione di “alcuni maestri dell’Oriente cristiano per i quali “il Paradiso è solo l’inizio del cammino”, intendendo per Paradiso solamente i ritorno dell’essere allo stato primordiale”, ossia lo stato edenico che Adamo aveva prima della caduta; “oltre, infatti, ci sono tutti gli stati superiori dell’essere, simboleggiati dai Cieli, ed oltre gli stessi Cieli vi è la perfetta unione con Dio simboleggiata dall’Empireo”. Una nozione condivisa da Dante, che conosce i vari “gradi” del Cielo, anche se avverte “Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia del sommo ben d’un modo non vi piova”.
Se ciò sembri strano al cristiano d’oggi, c’è un motivo, che non conoscevo e di cui Marletta informa: un Concilio di Costantinopoli, risalente all’870, ridusse obbligatoriamente l’uomo a ”corpo e una sola anima razionale e intellettuale” condannando come empia la nozione che in esso viva lo Spirito, inteso come una “seconda anima”. Interessante apprendere che non solo la Chiesa d’Oriente non accettò quel concilio; ma anche Tomaso d’Aquino pare non conoscerlo, in quanto riconosce un’anima “trascendente e universale” (lo Spiritus astra petit di Lucrezio), e Teresa d’Avila, in forza delle sue esperienze mistiche, nota: “Si vedono cose interiori che mostrano in modo sicuro che, sotto un certo rapporto, c’è un’evidente differenza tra l’anima e lo spirito” . Per tacere di San Paolo e dei molti luoghi in cui distingue il soma (corpo) l’anima (psyché) e lo spirito (pneuma).
In Regno esistono “molte dimore”, disse Cristo ai discepoli, aggiungendo che andava “a preparare un posto” apposta per loro. E’ lecito chiedersi dunque se una dimora della Salvezza chiamata “il seno di Abramo” non sia quella “fatta apposta” per ebrei ed arabi, discendenza del patriarca antico che lasciò la sua terra ad Ur in millenni immemorabili, e del canale di grazia che si aprì, grazie alla sua fede, un antico meriggio alle querce di Mamre. Sembrava crederlo Papa Gregorio VII nella lettera che scrisse al principe di Mauritania Anazir, musulmano:
“Noi e voi crediamo e confidiamo nell’unico Dio, per quanto in modo diverso, il quale quotidianamente lodiamo e veneriamo […] E chiediamo a Dio che, dopo una lunga e felice vita,tu possa essere condotto beatamente nel seno del santissimo patriarca Abramo”.
Se poi qualche “tradizionalista” si voglia scandalizzare, Marletta gli dà un’altra occasione provocatoria maggiore. Abbiamo giustamente schernito le concezioni del paradiso islamico, la promessa dei piaceri con le numerose vergini Uri. Ebbene, ecco cosa scriveva Efrem il Siro, santo, vescovo e dottore della Chiesa, morto nel 373, secoli prima di Maometto:
“Pensa al paradiso! Al suo aroma ristoratore e ai suoi piacevoli profumi, la tua giovinezza si rinnova, svaniscono le tue imperfezioni Chi si è astenuto dal vino sulla terra, per lui abbondano i vini in paradiso…E chi visse in continenza, lo accolgono donne nel loro casto grembo, poiché da monaco non cadde fra le braccia e nel letto dell’amore terreno”
E questo, in uno degli “Inni del Paradiso” che il santo cristiano compose! In questa evocazioni della carnalità è una perenne sapienza, il simbolo coincide con il reale: nell’uomo che ha conseguito la Salvazione, nell’uomo ridiventato integrale, nulla di ciò che è suo mancherà, come il “meno” è contenuto nel “più”- questo vuol significare sant’Efrem il Siro. Bisogna recuperare la coscienza, come dice Marletta, che la condizione edenica è lo stato in cui “tutte le possibilità sono co-presenti e l’essere può disporne a suo piacimento. L’Adamo dell’’Eden è simultaneamente bambino e adulto, corporeo e sottile, fermo e in movimento, perché il frutto della ‘dualità’ non ha più potere su di lui, tutte le possibilità dello stato umano sono a sua disposizione e sono per lui uno”. E chissà, forse lo stesso vuol dire il Corano con le sue favolose Urì.
E’ uno stato inimmaginabile a noi poveri coinvolti nel tempo (il tempo che è sinonimo di morte, come ci ricorda l’autore). Marletta ci ricorda sapienze che sono appartenute all’ortodossia cristiana, anche se oggi sembrano “gnostiche”; fornisce una utile mappa per l’aldilà, di cui – data la mia età – non posso che essergli grato. Soprattutto, fa ben capire l’urgenza della necessità di non cadere là dove “il verme non muore”, in quella in A-temporalità maligna cui corrisponde, nella atemporale Salvezza, “nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”, perché per ciascuno di noi “le vostre opere vi seguono”. Non suo piccolo merito, rende gli stati paradisiaci affascinanti nella loro accurata complessità, e dà la voglia di andarci, il che non è da poco – specie per uno della mia età.
Penso infine che il suo libro sarà essenziale per coloro che vivranno “dopo” . Dopo che “questa generazione” sarà passata, cogliendo i frutti delle sue apostasie, e il Cuore Immacolato avrà trionfato.