Sono passati cento giorni dall’inizio del conflitto sudanese che ha destabilizzato una regione già martoriata dalla guerra. Con oltre 3.000 persone uccise e tre milioni di sfollati la situazione non sembra migliorare.
Più di cento giorni sono trascorsi dall’inizio della guerra in Sudan che vede contrapporsi l’esercito alle Forze paramilitari di Supporto Rapido (RSF), entrambi nel tentativo di ottenere il controllo del paese; e mentre la crisi umanitaria è in rapido peggioramento, la guerra sembra essere bloccata in uno stallo brutale, di cui a pagarne le conseguenze sono come sempre i civili.
Con oltre 3.000 persone uccise e più di tre milioni di sfollati, il conflitto ha causato gravi ripercussioni umanitarie, costringendo migliaia di persone a cercare rifugio in paesi vicini come Ciad, Egitto e Sud Sudan. La situazione è critica e richiede azioni immediate per proteggere la sicurezza e il benessere dei civili coinvolti.
Il conflitto armato è iniziato il 15 aprile a Khartoum, la capitale, trasformandola rapidamente in un campo di battaglia e causando una massiccia fuga di persone, compresi stranieri, già durante le prime settimane degli scontri. Da allora, i combattimenti si sono estesi alla regione del Darfur e ad alcune zone del Kordofan e del Nilo Azzurro, aggravando ulteriormente i già instabili equilibri etnici e la situazione di povertà nella regione. Nonostante siano passati oltre 100 giorni, nessuna delle fazioni coinvolte ha ottenuto una netta vittoria e le iniziative diplomatiche intraprese per fermare il conflitto non hanno prodotto risultati concreti. Gli sforzi congiunti dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti, tra i primi paesi a intervenire, hanno portato solo a brevi tregue spesso violate, tanto che i negoziatori hanno abbandonato i colloqui a maggio. Nonostante la promessa di riprenderli a luglio, ciò non si è ancora concretizzato. L’Unione Africana e l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), che hanno cercato di agire in modo coeso per mediare il conflitto, hanno incontrato difficoltà a causa della diffidenza e della scarsa collaborazione delle fazioni contrapposte, che sembrano disposte a trattare solo a parole, mettendo la sicurezza dei sudanesi in secondo piano.
Martedì scorso, al Cairo, una coalizione politico-civile, l’alleanza delle Forze per la Libertà e il Cambiamento (FFC), durante un incontro durato due giorni, ha preteso la fine del conflitto. Nella dichiarazione rilasciata dopo l’incontro, la coalizione ha sottolineato l’importanza di avviare un processo politico che conduca alla cessazione immediata delle ostilità e del conflitto armato. Ha anche esortato a trovare una risposta efficace per affrontare l’emergenza umanitaria causata dalla guerra e garantire la protezione dei civili in accordo con il diritto internazionale. La coalizione ha inoltre richiesto la trasparenza, la responsabilità e le riparazioni per tutte le gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle parti in conflitto.
Questo incontro rappresenta il primo dialogo diretto tra le parti della coalizione dallo scoppio della guerra in Sudan a metà aprile. La FFC ha insistito sul fatto che il processo politico per sostenere la fine del conflitto dovrebbe coinvolgere ampiamente le forze civili sudanesi al fine di una transizione civile democratica in modo globale.
Origine della guerra in Sudan
La guerra in Sudan vede contrapporsi le forze armate del generale Abdel-Fattah Al-Burhan, capo del Consiglio sovrano che guida il paese, e il gruppo paramilitare delle Forze di Supporto Rapido (RSF) guidate da Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti, il numero due della giunta. Nell’ottobre 2021, Al-Burhan e Hemedti hanno orchestrato un colpo di stato per rovesciare la transizione verso un governo civile, avviata dopo la caduta della dittatura trentennale di Omar al-Bashir. Al-Burhan, un militare di carriera che ha guadagnato potere durante il regime di Bashir, ha assunto la presidenza, mentre Hemedti, capo delle milizie Rizeigat, composte prevalentemente da pastori nomadi del Darfur, è diventato il suo vice. Tuttavia, questa unione è sempre stata tesa e motivata principalmente dall’obiettivo di contrastare le insurrezioni della società civile che, dopo la rivoluzione contro Bashir, desiderava instaurare un governo democratico. Al-Burhan si è sempre rifiutato di integrare le milizie RSF nell’esercito e questa questione ha portato a un deterioramento del rapporto tra lui e Hemedti, sfociando infine in un conflitto aperto tra le loro forze. Le forze di Al-Burhan hanno accusato Hemedti di essere un “criminale” e hanno ordinato lo scioglimento immediato delle RSF. Hemedti, al contempo, ha annunciato una taglia sulla testa di Al-Burhan, intensificando ulteriormente la rivalità tra i due leader.
Ulteriormente più complicata la situazione nel Darfur dove le comunità arabe, con il sostegno delle Forze paramilitari di Supporto Rapido (RSF), sembrerebbero essere responsabili di azioni violente e sistematiche che mirano a sradicare la popolazione Masalit (non araba) sulla base della loro appartenenza etnica. È di due settimane fa la notizia dell’avvio di un’inchiesta della Corte penale internazionale (CPI), per indagare sui crimini commessi nella regione del Darfur in parallelo alla guerra che sta distruggendo il paese.
A causare ulteriori preoccupazioni è l’allarme lanciato dall’UNICEF, il quale sostiene che almeno 435 bambini siano stati uccisi e 2.025 feriti. L’organizzazione ha inoltre denunciato un drammatico aumento degli attacchi contro le strutture sanitarie in diverse parti del paese. Circa il 68% degli ospedali nelle zone più colpite ha dovuto sospendere i propri servizi a causa degli attacchi e si segnala che almeno 17 strutture sono state oggetto di bombardamenti. Ancora più preoccupante la notizia che alcuni ospedali siano stati trasformati in basi militari, compromettendo gravemente la capacità di fornire cure mediche essenziali e che numerose ambulanze siano state attaccate mentre trasportavano feriti, rendendo ancora più difficile l’accesso alle cure mediche per coloro che ne hanno bisogno.
La situazione umanitaria attuale è gravissima, con migliaia di persone uccise e milioni di sfollati, però evidenzia l’importanza della diplomazia e del dialogo nella risoluzione dei conflitti. Le iniziative diplomatiche finora hanno avuto scarsi risultati, probabilmente anche per uno scarso impegno da parte della comunità internazionale. È cruciale ricordare che le radici dei conflitti, come le tensioni etniche e la povertà possono essere risolti solo attraverso un lavoro di sviluppo socioeconomico e inclusione sociale.