Le aziende di oggi fanno a gara a chi ne vanta di più in etichetta: biodegradabile, eco-sostenibile, naturale, compostabile, non inquinante, “amico dell’ambiente” o “della natura”, “materiale riciclabile” – oppure nella sua variante “da materiale riciclato”. Le strategie per attirare consumatori consapevoli – coloro che hanno a cuore la tutela dell’ambiente – rimandano tutte a un unico, potente linguaggio: la lingua del greenwashing.
Mentre l’industria sembra padroneggiarla con sempre più maestria, gran parte di noi forse, fa ancora fatica a comprenderla.
Forse è perché ancora non esiste una Grammatica – un insieme di regole e principi fissi, stabiliti, su cui basare la correttezza di questa lingua – eppure quella del greenwashing è una pratica ormai affermata, sempre più diffusa e utilizzata. Alcuni termini vi torneranno familiari – in fondo sono stati presi a prestito dall’italiano – ad esempio “biodegradabile”, “naturale”, “eco-sostenibile”… O più probabilmente, è perché li si trova costantemente stampati in etichetta.
Si tratta di quelle paroline magiche che oggi determinano sempre di più i nostri consumi, oltre che la fiducia in determinati marchi; soprattutto quelli di prodotti “controversi” come detersivi e cosmetici, spesso accusati di contenere sostanze dannose per noi o per l’ambiente (ma anche aziende come Mc Donald’s hanno già imparato ad adattarsi).
Quando però scegli uno shampoo “95% biodegradabile”, ti senti rassicurato, a posto con la coscienza. Capita comunque (spesso) di essere vittime di un linguaggio affabulatore, proprio in quanto libero e pressoché privo di regole. “Greenwashing” nasce dall’unione dell’inglese green (verde) e wash: lavare, ma anche ripulire. E in questo caso, non ha nulla a che vedere con il lavaggio che stai per fare ai capelli.
(Chi oltre al greenwashing, non se la cava nemmeno con l’inglese, nel video può attivare i sottotitoli in italiano nel riquadro delle Impostazioni in basso a destra).
Italiano – Greenwashing: Grammatica e Dizionario
Uno strumento utile quando si tratta di imparare una nuova lingua, è sicuramente un dizionario. Quello del greenwashing (chissà perché) non è ancora stato creato, e tanto meno una Grammatica che ne regolamenti l’utilizzo. In Italia infatti – come del resto in altri paesi europei – non esiste una normativa (contrariamente agli alimentari) che stabilisce quando un prodotto può essere definito “biologico”, oppure “naturale”, “ecologico”, tanto meno “eco-sostenibile”. Esistono però criteri precisi, da Regolamento Europeo, che limitano i valori di biodegradabilità e tossicità. Si tratta comunque di limiti minimi per la messa in commercio: il che significa che un prodotto “biodegradabile” non è sinonimo di “non inquinante”, né di “non nocivo” per le specie acquatiche, terrestri ecc. Potremmo quindi definirle soglie di tollerabilità.
Torniamo quindi al caso dello shampoo “95% biodegradabile”: la confezione è verde acquamarina, con leggeri tocchi di bianco, ad accentuare la presunta innocenza e naturalità del prodotto. Questo ci dice comunque poco, su quanto sarà felice l’ambiente di accogliere nelle sue acque, o nei suoi terreni, le sostanze in esso contenute. Girando il falcone quindi, troviamo l’elenco degli ingredienti, anche noto come INCI (International Nomenclature of Cosmetic Ingredients) fra i più fissati dell’argomento. La lista è piuttosto lunga (ma ne esistono di peggiori), scritta in un incomprensibile latino, piena di nomi sconosciuti pieni di Y, e che spesso terminano in -pyl oppure -ide. Il primo comunque in genere ci rassicura, ed è comunemente acqua. A questa si aggiungono tensioattivi – come lauryl sulfate o sodium cocoyl isethionate – che possono essere di origine sintetica o naturale, e servono sostanzialmente a detergere; troviamo poi addensanti – come il sodium chloride, alias. sale da cucina – conservanti, agenti tamponi come l’acido citrico, più qualche profumo e olio essenziale. Se ancora non disponiamo di un dizionario del greenwashing, possiamo comunque cercare informazioni sulle singole sostanze: il database online della ECHA (European CHemicals Agency) serve proprio a questo, ma è anche vero che – per chi non se ne intende – può risultare un pelino complicato da leggere in ogni sua parte (sono inclusi studi, saggi, test, ricerche eccetera per ogni sostanza). Una valida alternativa potrebbe quindi essere il database Ecobiocontrol, frutto del lavoro dell’esperto di detergenza eco-sostenibile Fabrizio Zago, e costantemente aggiornato secondo Regolamento Europeo.
Alla voce “biodegradabile“:
Veniamo allo shampoo “95% biodegradabile” quindi (ma questo vale per qualsiasi prodotto su cui vogliamo fare qualche accertamento in etichetta): ricercando ingredienti per ingrediente, sia sul sito dell’ECHA che su quello di Ecobiocontrol, la maggior parte degli ingredienti risulta effettivamente biodegradabile.
Il problema è che nemmeno “biodegradabile” costituisce una vera garanzia: spesso associato a un concetto positivo, di ridotto impatto ambientale, la biodegradabilità è infatti la proprietà di degradarsi (scomporsi in sostanze più semplici) una volta rilasciato in natura. Prima domanda che occorrerebbe farsi dunque è: quali sostanze più semplici? Può capitare infatti che i prodotti finali siano addirittura più inquinanti rispetto a quelli di partenza.
La seconda domanda da porsi è: biodegradabile sì, ma a quali condizioni? Il processo di degradazione non è affatto una formula magica, che pronunci e si avvera istantaneamente: ogni sostanza richiede determinati enzimi, microorganismi, una data esposizione alla luce o all’aria, oltre che a specifiche temperature, che ne favoriscano la scomposizione e il riassorbimento nel terreno o nell’acqua. I discutibili sacchetti biodegradabili distribuiti nei supermercati ad esempio, sono generalmente fatti in acido polilattico (PLA), il quale di per sé non è biodegradabile: lo diventa infatti solamente in seguito a idrolisi a temperatura maggiore di 60°C e umidità maggiore del 20%.
La terza domanda – ed è forse quella fondamentale – riguarda le tempistiche: pressoché ogni cosa è destinata a degradarsi in natura prima o poi, persino le bottiglie di plastica: che però pare ci impieghino più di 500 anni.
Quindi, se per la plastica – nello specifico gli imballaggi – la normativa prevede che si decomponga almeno del 90% in meno di sei mesi per definirsi “biodegradabile”, per il nostro shampoo, così come per altri cosmetici e detergenti, pare non ci sia alcun requisito per stabilire se un prodotto – al di là che sia biodegradabile o meno – risulti più o meno impattante sull’ambiente e sugli organismi che ci vivono (ivi noi compresi).
La soluzione insomma qual è? Diffidare di ogni prodotto, di qualsiasi dicitura che ci ricordi del greenwashing, e rispolverare i rimedi naturali della nonna o l’auto-produzione? Assolutamente no. O meglio, in alcuni casi preparare da sé i propri cosmetici e detergenti, può darci la sicurezza riguardo ciò che mettiamo al loro interno. Ma ciò non toglie che questi esperimenti da piccolo chimico, possano rivelarsi del tutto inefficaci, oppure addirittura peggio, altrettanto disastrosi per l’ambiente che eravamo intenzionati a difendere.
Impariamo il linguaggio del greenwashing quindi, diventiamo abili nel riconoscerlo, e assumiamo un po’ di atteggiamento critico nei confronti delle etichette: una piccola ricerca, o un poco di curiosità non costano nulla.
Alice Tarditi