Ci sarà pure dietro una storia vera ma si ha anche più il sospetto che alle spalle di Green Book si trovino gli spettri di A spasso con Daisy, Moonlight e Stregata dalla luna. Peter Farrelly (1956) è regista e scrittore di questo film con ben 5 nomination agli Oscar: quelle per miglior film, sceneggiatura, montaggio e migliori attori (protagonista per Viggo Mortensen e non protagonista per il già premiato Mahershala Ali).
La scelta del soggetto è in gran parte dovuta a Nick Vallelonga (1959), figlio di quel Tony che sul grande schermo ha le fattezze dell’istrione Mortensen e che viene scelto dal pianista Don Shirley (Ali) per una tournée di due mesi come autista.
Rozzo e di buon cuore, l’uomo (che segue il Green Book del titolo per portare Don nei luoghi dove gli afro-americani possono essere accolti senza problemi) s’affeziona al pianista durante la discesa nel Sud degli Stati Uniti. Più loro s’inoltrano nella provincia più vengono investiti dalla diffidenza e dal razzismo dei locali. La presenza sanguigna di Tony apre Don, omosessuale e solitario di natura, al mondo; la raffinatezza del pianista fa crescere umanamente la sboccata creatura del Bronx.
Farrelly sa dirigere gli attori e quali tasti toccare per ingraziarsi il pubblico. Lo sa così bene che il lavoro finale risulta meccanico e forzato a lungo andare: il piacere di molte scene e battute viene raggelato dalla mancanza di naturalezza.
Ciò che insospettisce in questo film ruffiano è anche il suo tempismo: data l’ondata di politicamente corretto che attraversa l’Hollywood attuale, potrebbe non essere inopportuna la sensazione d’essere di fronte ad un film su commissione.
Un punto forte del film è certo la simpatia del personaggio di Mortensen, la cui bravura invita a guardare il film in lingua originale. La verve tutta italo-americana sfoggiata dall’attore è una delle poche note frizzanti e genuine del film, perfetta nella capacità di unire energia e trivialità. Applausi e risate per Tony Lip non sono sprecati di certo.
Antonio Canzoniere