Se fosse stata ancora tra noi, Grazia Deledda avrebbe oggi spento decine e decine di candeline. La scrittrice sarda era infatti nata a Nuoro, il 28 settembre del 1871; eppure, nonostante sia passato ormai quasi un secolo dalla sua scomparsa- avvenuta nel 1936- il suo ricordo rimane vivo ed assolutamente attuale.
La Deledda, insignita del Premio Nobel per la letteratura nel 1926– preceduta, nel Belpaese, solo da Giosuè Carducci e, ad oggi, unica donna italiana ad avere tale onore- ha decisamente lasciato il segno nel panorama letterario italiano.
Ciò grazie alle sue peculiarità, che sin da subito ne hanno fatto una voce decisamente di difficile inquadramento, non riuscendosi ad incasellare le sue opere in questa o quella categoria.
Insomma, una donna fuori dagli schemi, la cui unicità si ripercosse senza dubbio sui suoi scritti– cresciuti, maturati assieme a lei, abbandonando progressivamente una narrazione di sentimenti e personaggi descritti con poco spessore (come spesso sono stati tacciati quelli descritti nelle opere giovanili, come il racconto “Sangue sardo“, del 1888), fino a giungere ad opere inscindibili rispetto alla reale complessità umana della scrittrice (e, in quanto profondamente umane, dotate di una profondità inesauribile: è, ad esempio, il caso di quello che viene considerato il suo più grande capolavoro, “Canne al vento“, edito nel 1913).
In ogni caso, l’opera della Deledda non cessò mai di essere profondamente legata alla sua terra, la Sardegna, ed in particolare all’area di Nuoro- di cui era originaria e dove visse sino al 1899, anno in cui si trasferì a Roma. Forse fu proprio questo suo legame con le tradizioni e la vita sarda a confondere i primi critici, che la bollarono come una verista, “degna scolara di Giovanni Verga” (il quale, peraltro, manifestava un grande apprezzamento per le opere della Deledda). L’autrice stessa, del resto, non si chiuse a tale possibilità, riconoscendo l’indole verista dei suoi scritti,
“se ‘verismo’ può dirsi il ritrarre la vita e gli uomini come sono, o meglio come li conosco io“.
La descrizione dell’isola natia fatta dalla scrittrice non suscitava, tra l’altro, la simpatia del popolo sardo, che accusò la Deledda di porre eccessivamente l’accento sul carattere rustico della Sardegna, facendola così apparire come piuttosto arretrata.
Altri sostenevano che l’opera di Grazia Deledda inerisse alla corrente letteraria del Decadentismo, data la forte rappresentazione del dolore e della solitudine dell’animo umano che sempre pervadevano i suoi scritti.
Ancora, la sua intima vicinanza agli scrittori russi– asserita dalla stessa Deledda, che trovava gli usi sardi e quelli russi “così stranamente rassomiglianti” e che dagli autori russi era tanto affascinata da dedicare una raccolta di novelle a Tolstoj- portò Momigliano a sostenere che la scrittrice sarda fosse “un grande poeta del travaglio morale“, paragonabile a Dostoevskij.
Forse la Deledda altro non era che un’isola, come la natia Sardegna che sempre si ostinò a riportare nei suoi scritti; lambita- come sempre sono le isole- da forti influenze dettate dal periodo di transizione sociale e culturale in cui si ritrovò a vivere, ma sempre in qualche modo avulsa da esse.
E, come sempre accade per i luoghi isolati, le tradizioni e le peculiarità rimangono immutate: così accadde anche all’approccio linguistico della Deledda, che rimase sempre profondamente ancorata al sardo– la sua lingua madre- e sempre rifiutandosi di imbrigliare emozioni, personaggi, parole e pensieri nel linguaggio aulico e necessariamente costruito della prosa di quegli anni. Fu così che, nelle sue opere, scritte in un italiano assolutamente comprensibile ai più, di tanto in tanto lasciava cadere intraducibili vocaboli delle sue origini.
Uccisa da un tumore al seno, la Deledda riposa a Nuoro, nella chiesa della Madonna della Solitudine. Dopo la sua morte, regalò alla letteratura italiana una nuova opera: “Cosima, quasi Grazia“, incentrata su sé stessa e sulla solitudine dei suoi ultimi anni di vita; altro tributo, insomma, alla sofferenza dell’essere umano, altra cruda analisi della “crisi dell’esistenza“.
Lidia Fontanella