Con l’avvento della digitalizzazione e la presenza ormai costante dei social network nella vita di tutti i giorni, siamo abituati ad esprimere davanti a community di milioni di persone le nostre idee, convinzioni, e i nostri giudizi su ciò che ci circonda. Benché la maggior parte degli utenti sperimentino una sensazione di distanza tra la propria realtà fisica e la “piazza social”, esprimere le proprie opinioni in maniera indiscriminata attraverso un laptop potrebbe portare sia a conseguenze legali, che a vere e proprie dinamiche sociali capaci di conseguenze disastrose. Parliamo della cosiddetta gogna mediatica.
L’ingroup psicosociale e i target d’utenza
Partiamo da un dato: il singolo utente con il suo account regge i social network, ovvero permette che si alimenti. È a partire dal singolo utente e dai suoi interessi, infatti, che content creator di ogni tipo, personalità politiche, personaggi sportivi e chi più ne ha più ne metta, riescono ad accrescere i loro account, guadagnando la possibilità di maneggiare interessi economici, sociali e talvolta politici.
Un insieme di utenti che interagiscono con gli stessi contenuti, viene definito “target d’utenza”. È proprio il target, quell’insieme di utenti con gusti simili, a dare visibilità al personaggio che seguono. I target, parallelamente alla visione degli “ingroup” in Psicologia sociale, sono dei gruppi caratterizzati da persone con uno o più fattori in comune, potenzialmente i più disparati: nazionalità, età, etnia, religione, identità politica, città di provenienza e tanti altri.
L’ingroup è etnocentrico: la persona tende a considerare il proprio gruppo come punto di riferimento normativo e valoriale, e la persona seguita rappresenta il fulcro di quell’ingroup, che sia un politico o un’influencer. Il motivo d’unione dei gruppi infatti è l’identità sociale, un bisogno insito negli esseri umani che trova nell’appartenenza ad un gruppo il suo soddisfacimento. Degli esempi possono essere un target di persone italiane nate negli anni 60, un target di persone cattoliche, o un target di persone che votano per un dato partito politico.
Comportamenti a rischio dei gruppi online
L’assunto percettivo di distanza e deresponsabilizzazione dal mondo social che la maggior parte delle persone sperimenta è un assunto del tutto erroneo. Il solo fatto che un semplice utente abbia la capacità di far acquisire potere politico ad una persona grazie ad un click, rende evidente quanto la visione dei social come “mondo iperuranico” non sia adeguata.
Il mondo reale e il mondo social sono due parallelismi che si intersecano presentando due sole differenze: i social possiedono delle dinamiche ben più immediate e hanno il potere di far esprimere le persone molto più coraggiosamente di quanto non farebbero, in virtù di quel senso di distanza che percepiscono. Di conseguenza gli stessi errori percettivi del mondo reale si ripercuotono su di esso in maniera molto più pesante.
Come nel mondo fisico, infatti, i gruppi sono soggetti a varie euristiche (anche dette bias, scorciatoie mentali), spesso a danno di individui facenti pare di un outgroup (chiunque sia fuori dall’ingroup), uno di questi è il pregiudizio sociale. Le euristiche pilastro di qualsiasi gruppo sono il Bias di conferma e il Bias del favoritismo verso l’ingroup. Il primo si riferisce ad un errore attraverso il quale ogni persona dell’ingroup tenderà, di fronte a due notizie, a dare importanza esclusivamente a quella che conferma le proprie credenze sminuendo quella che le contraddice; il secondo è un errore attraverso il quale gli individui favoriranno indiscriminatamente i membri del proprio gruppo rispetto a quelli dell’outgroup.
In che modo un gruppo può essere responsabile di una gogna mediatica? Il fenomeno della gogna mediatica sorge nel momento in cui un ingroup, influenzato dai vari bias che presenta in quanto gruppo (primo tra tutti il Bias di conferma), e sperimentando questa diffusa sorta di deresponsabilizzazione di cui parlavamo, riversa odio, insulti e commenti negativi nei confronti di una persona dell’outgroup (questo accade di continuo sui profili social di partiti politici ad esempio). Ad un content creator, o in generale un detentore di consenso social, basta aizzare (direttamente o indirettamente, con un discorso calcolato o con una piccola critica) il proprio target d’utenza contro una persona, per far avvenire la catastrofe.
Come si concretizza la gogna mediatica
Già nel 2015, anno in cui i social iniziarono a diventare campo di dibattito sociale e di promozione partitica, l’autore inglese Jon Ronson pubblicò “Giustizieri della rete”, un libro dove evidenzia quanto internet alimenti i peggiori istinti moralizzatori delle persone, dando vita a vere e proprie gogne pubbliche. Quando un personaggio pubblico sfrutta il proprio potere sui social per mettere alla gogna un oppositore (in qualunque misura egli possa esserlo), che abbia ragione o torto, sta rischiando di distruggere un individuo.
La pratica in tutte le sue versioni, che in America viene chiamata “Name and shame”, consiste nel denunciare una persona al fine di punirla attraverso l’odio dei propri target d’utenza. L’ingroup di quel personaggio influenzato dalle proprie euristiche, tenderà ad accogliere la critica del proprio idolo e riversare odio verso la persona criticata (outgroup).
Le conseguenze per chi riceve quelle valanghe di scherni, insulti, e addirittura minacce di morte, sono devastanti. Si tratta di una vera e propria inquisizione, che esonda anche nella vita quotidiana della vittima per lunghi periodi di tempo. Oltre a poter sperimentare disturbi d’ansia e del sonno, la persona presa di mira rischia nei migliori casi il configurarsi di un Disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Ma per gli individui più fragili si può parlare anche di suicidio, come nel recente caso di Giovanna Pedretti, la titolare della pizzeria di Sant’Angelo Lodigiano per la quale a seguito del decesso la Procura di Lodi ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio.
L’ingroup deresponsabilizzato non segue necessariamente l’indicazione di un personaggio comune, ma può organizzarsi in gruppi e community, dove il semplice fatto di condividere la stessa idea con altre migliaia di persone porta il singolo individuo a sperimentare uno stato di disumanizzazione ed un’inerzia nell’agire secondo regole morali, un fenomeno che ricorda il famoso caso di Kitty Genovese. Un utente ragiona considerando il proprio commento critico o la propria offesa come un’espressione volatile e passeggera, ma non considera che la piazza social è composta da milioni di persone e che un milione di offese e minacce rappresentano qualcosa di ben più concreto per chi le riceve. La gogna mediatica è un evento che capovolge la vita della vittima arrecandole un danno psicologico certo e conclamato.
Gogna mediatica in Italia
In Italia l’unica tutela in questi casi, se la vittima è oggetto di scherno in modo da offendere la sua reputazione, consiste nel reato di diffamazione, una misura che non garantisce in alcun modo la protezione della vittima, soprattutto considerando i tempi della burocrazia italiana contro quelli del web.
Nei casi in cui il “social shaming” riguardi la pubblicazione di un proprio contenuto senza il consenso si può ottenere la cancellazione dello stesso, ma le conseguenze ormai inarrestabili possono colpire profondamente la vittima come nel caso di Tiziana Cantone, la 31enne napoletana suicidatasi a causa della gogna social successiva alla diffusione di un proprio video hard.
Ad oggi In assenza di un concreto sistema di assistenza psicologica, e in un mondo dove i social network sono un vero e proprio universo entrato a far parte della vita di tutti, sarà forse il caso di applicare delle norme volte alla tutela mentale di chi naviga in Internet? Sarà il caso di categorizzare una pena per i mandanti di queste gogne?
Sarà forse il caso di dare risalto ad un fenomeno potenzialmente fatale ma che pare ormai normalizzato?
Adriano De Giorgio