Non c’è l’ambasciatore Usa James Dunn pronto a farsi immortalare dal Nord al Sud del Paese di fronte al cantiere di un nuovo edificio pubblico o al tagli del nastro di un nuovo ospedale. Non c’è il treno dell’amicizia con il giornalista Drew Pearson, che girava l’Italia festeggiato ad ogni tappa da autorità entusiaste e folle imbandierate. E nemmeno le lettere d’ Oltreoceano dei parenti o presunti tali che, tra il sentimentale e il politico, si prendevano la briga di inviare cartolina ai loro parenti rimasti in Italia per invitarli a fermare l’avanzata comunista.
Dopo quasi 80 anni dalle elezioni del 1948, le prime dopo la caduta del Fascismo e la proclamazione della Repubblica, sembra essere rimasta intatta la convinzione che gli Stati Uniti possano influenzare il voto dei cittadini italiani. Non sono più quei tempi, non c’è più la cortina di ferro e soprattutto non c’è più un Piano Marshall da mettere sul piatto con cui condizionare il voto. Ma la narrazione del Presidente del Consiglio, volato negli Usa come ospite d’onore insieme alla delegazione italiana all’ultima cena di Stato del mandato del Presidente Obama, sembra insistere nella stessa direzione dei nostri padri democristiani: se votiamo sì, Dio è con noi e l’America pure.
E’ troppo scaltro il Presidente del Consiglio per capire che non è così semplice. Sa che i tempi sono cambiati. Renzi sa, o almeno ci auguriamo, che la stragrande maggioranza dei cittadini non percepisce sulla propria pelle nessun beneficio degli ottimi rapporti tra Stati Uniti e Italia o del sostegno di Obama alla campagna del sì. Non ci sono aiuti da mettere sul piatto, non c’è il famoso assegno che l’ambasciatore americano consegnò al Ministro delle Finanze Italiane a ridosso dell’aprile del ’48 per gli ex prigionieri italiani. E tanti cittadini sono più irritati dalle spese di un volo di Stato per raggiungere la Casa Bianca che contenti dei buoni rapporti con la più grande potenza del mondo.
Nell’enfasi con cui sembra gli Usa si interessino degli esiti elettorali nel nostro Paese, oggi come allora, c’è un grande gioco di interessi economici e politici. Il tutto ben coperto e colorato con le strategie della comunicazione. Ma manca un elemento decisivo, che forse renderà del tutto inutile tutta la grande operazione mediatica a suon di discorsi ufficiali e vestiti da sera delle due first lady: il popolo italiano.
James Dunn presenziava all’apertura di nuovi ospedali e scuole costruite grazie agli aiuti degli Usa. Consegnava assegni in mano ai ministri italiani. E soprattutto c’era un popolo, quello italiano, che in un modo o nell’altro, dai manifesti ai comizi, percepiva che l’amicizia con la più grande democrazia del mondo era un’occasione strategica per la nostra Nazione. E quindi, per citare Montanelli, ci si poteva anche “turare il naso” e votare quello che desideravano gli Stati Uniti. Ne valeva la pena.
Oggi, nella grande operazione mediatica dal titolo “Obama appoggia il sì”, manca il popolo italiano. A cena con Obama c’era una delegazione dove solo grazie a Beatrice Vio e a Giusi Nicolini si conteneva l’immenso gap sociale ed economico tra la stragrande maggioranza degli Italiani e il resto di quella delegazione, molto poco rappresentativa dell’Italia normale.
L’amicizia col popolo americano, dal 1948 ad oggi, è diventata un po’ come tutta la politica una grande operazione di comunicazione conclusa in una grande cena extra lussuosa alla Casa Bianca, più da film o da sogno, così lontana dagli ospedali aperti o dai treni dell’amicizia. Manca la dimensione umana e popolare, manca il legame con la realtà di disperazione sociale di tante famiglie italiane. E questa frattura non la risanerà una grande cena di gala alla Whitehouse. E l’esito del referendum non sarà un pranzo o una cena di gala alla Casa Bianca.