I richiedenti asilo rappresentano solo il 3% degli immigrati in Italia; 5,8 milioni di stranieri producono un Pil di 127 miliardi di euro evidenziando, di fatto, quanto sia economicamente vantaggioso il loro lavoro.
I migranti che si trovano a vivere in Italia, subiscono condizioni di vita nettamente differenti da quelli che si trovano nei diversi paesi dell’Unione Europea. Hanno un maggiore rischio di cadere in povertà se vengono messi a confronto con i cittadini spagnoli, italiani, francesi e tedeschi: l’esclusione sociale, addirittura, raggiunge cifra doppia nel paese d’oltralpe e in Italia se si considera il numero dei nativi.
Analizzando i dati del nostro paese, la povertà riguarda la metà degli stranieri e un italiano su quattro: i dati evidenziano che gli stranieri vengono retribuiti meno degli europei tanto che un migrante, che non è nato in Europa, riceve all’incirca 6mila euro meno rispetto a chi svolge la stessa mansione ma è nato in Italia. Disparità che aumentano se si fa un confronto con i colleghi presenti in Spagna (7mila euro) e in Francia (8mila euro).
Le cause di questa disparità, secondo il sociologo Ambrosini, sono molteplici:tra le più importanti vi sono i problemi derivanti dalla discriminazione e dal presentarsi, in ambito lavorativo, con un cognome straniero. Ma si tratta di una problematica presente in tutta Europa, come ha dimostrato una ricerca condotta da un team tedesco nel 2011: presentarsi a un colloquio lavorativo con un curriculum che presenta un cognome tedesco, aumentava del 29% le possibilità di ricevere un risposta rispetto a coloro che appartenevano a delle minoranze.
Molto spesso, però, si tratta di immigrati che possiedono più qualifiche rispetto ai colleghi nativi ma che lavorano in posizioni inferiori e non adatte al livello di istruzione raggiunto.
Un ulteriore paradosso emerge dal fatto che coloro che riescono ad ottenere un lavoro, in Italia, hanno un basso livello di istruzione. Infatti, secondo i dati dell’Ocse, il nostro paese è l’unico tra i quattro stati presi in esame (Francia, Germania e Spagna) dove gli stranieri con livelli di istruzione molto bassi hanno maggiori possibilità di trovare lavoro rispetto agli italiani con lo stesso livello di educazione.
Secondo il sociologo questo dato si spiega col fatto che: “Una famiglia italiana che ha portato il figlio fino al diploma non lo manderebbe mai a lavorare in un’impresa di pulizie. Gli immigrati accettano lavori che i giovani italiani, spesso figli unici e iscritti all’università, non vogliono più fare”. Questo genera anche delle ripercussioni a livello psicologico, soprattutto per i più istruiti, visto che sono consapevoli di accettare un lavoro non all’altezza delle qualifiche possedute.
Ma questa assenza di richiesta di lavoratori qualificati è una conseguenza stessa delle offerte presenti nel mondo del lavoro, “visto che il nostro mercato del lavoro si allarga verso il basso – precisa il sociologo- offrendo pochi posti qualificati anche alle persone native, mentre sono ben più numerose le posizioni aperte in agricoltura, turismo e ristorazione”.
La presenza degli immigrati è anche collegata alla sopravvivenza delle piccole imprese: alcuni datori di lavoro sono riusciti a superare la crisi, soprattutto, grazie al basso costo che gli garantiva la manodopera costituita proprio dagli stranieri. E anche grazie a questo, gli italiani sono stati invogliati a ricercare occupazioni che richiedevano una maggiore specializzazione.
Una delle poche soluzioni che possono adottare, per avere un avanzamento di carriera o per realizzare le loro aspirazioni, è svolgere un lavoro autonomo: oltre che delle entrate regolari, possono contare così sulla regolarizzazione del loro ruolo all’interno della società.
Al di là dei dati, la realtà che emerge è che gli immigrati non rubano il lavoro di nessuno. Vanno a soddisfare quella richiesta di mercato che di solito gli italiani non prendono in considerazione, accontentandosi di lavori che non corrispondo alle qualifiche possedute.
Altra considerazione, da non prendere sottogamba, è che il grosso dei rifugiati viene gestito dai paesi del Terzo Mondo mentre qui arriva solo una piccola parte, una parte che potrebbe rappresentare un’importante risorsa per l’economia del paese visto che il 35 per cento dei giovani stranieri con un’età compresa tra i 15 e i 29 anni, non lavora e non studia.
Dorotea Di Grazia