Gli Stati Uniti sono pronti a rientrare nell’UNESCO. Washington aveva lasciato l’organizzazione in modo ufficiale alla fine del 2018, durante la presidenza di Donald Trump, accusando l’agenzia di avere un «pregiudizio anti-israeliano». Sullo sfondo della nuova decisione ci sarebbero anche le preoccupazioni legate all’eccessiva influenza di Pechino sull’organizzazione delle Nazioni Unite.
Negli ultimi anni, ogni volta che a Washington c’è da prendere una decisione diplomatica importante, la Cina è sempre il convitato di pietra. E anche la questione attuale non rappresenta un’eccezione: gli Stati Uniti sono pronti a rientrare nell’UNESCO (l’agenzia dell’ONU che si occupa di «promuovere la pace tra le nazioni» attraverso la scienza e la cultura) dopo quasi cinque anni di assenza, per provare a contenere l’influenza di Pechino che nel frattempo è diventato il principale investitore dell’agenzia delle Nazioni Unite.
In un comunicato pubblicato lunedì, l’UNESCO ha reso nota la volontà di Washington di rientrare nell’organizzazione, annunciando che ciò potrebbe avvenire già dal prossimo mese. La notizia non è sicuramente inaspettata in quanto era stata anticipata dalla decisione del Congresso degli Stati Uniti nel dicembre 2022. Tuttavia, a destare grande stupore sono la data ravvicinata del possibile rientro, il prossimo mese di luglio, ma soprattutto la volontà degli Usa di pagare all’UNESCO i contributi finanziari federali arretrati e sospesi già nel 2011 durante la presidenza di Barack Obama, sei anni prima dell’uscita definitiva avvenuta sotto l’amministrazione Trump il 12 ottobre 2017.
Ma prima di scoprire quali sono i reali motivi che hanno spinto gli Stati Uniti a velocizzare il loro rientro nell’UNESCO, proviamo a ripercorrere le tappe del travagliato rapporto di Washington con l’organizzazione.
Il rapporto complicato di Washington con l’UNESCO
A breve gli Stati Uniti rientreranno nell’UNESCO per la seconda volta, dopo che nel 1984, in tempi di Guerra Fredda, Washington aveva lasciato l’organizzazione sotto la presidenza Ronald Reagan, accusandola di essersi schierata con l’Unione Sovietica, per rientrarvi in pianta stabile soltanto nel 2002 con il presidente George W. Bush.
D’altronde, il rapporto tra gli Usa e l’UNESCO non è mai stato semplice, Infatti, nonostante Washington sia stato per molto tempo il maggior finanziatore dell’organismo, non ha mai smesso di esprimere la propria insoddisfazione per la gestione finanziaria dell’organizzazione.
Ma, la causa principale dei dissidi tra Stati Uniti e UNESCO è sempre stata la politica internazionale. Durante la loro permanenza, gli Stati Uniti hanno cercato di plasmare in ogni modo la governance dell’UNESCO secondo le proprie ragioni ideali e istanze geopolitiche, comprimendo il peso politico e decisionale dei membri politicamente non allineati con l’asse occidentale, in primis la Cina che negli ultimi anni ha investito molto nell’organizzazione, aspirando a divenire anche una superpotenza culturale.
Nel 2011, dopo soli nove anni, l’ingresso nell’UNESCO della Palestina ha complicato nuovamente le cose e l’amministrazione Obama, riprendendo una legge del 1990, ha vietato agli Stati Uniti di elargire contributi economici a qualsiasi agenzia delle Nazioni Unite accettasse la Palestina come stato membro.
Dal 2011, Washington ha quindi accumulato un totale di finanziamenti non erogati all’UNESCO di oltre 600 milioni di dollari (circa 560 milioni di euro), che ora il Congresso parrebbe intenzionato a ripagare. L’amministrazione Biden ha infatti approvato nel dicembre 2022 una legge che permetterà di finanziare nuovamente l’organizzazione a cui gli Usa hanno versato fino al 2011 una cifra pari a 80 milioni di dollari l’anno (poco più di 74 milioni di euro).
La rottura del 2017 e la nuova inversione di rotta
Seguendo l’ordine degli eventi, si arriva alla rottura più recente, quella del 2017 quando Donald Trump, compiendo un ulteriore passo in avanti, decide di ritirare definitivamente gli Stati Uniti dall’UNESCO, accusando l’organizzazione sul lato della gestione economica ma soprattutto di avere un pregiudizio contro Israele.
Sempre nel 2017, oltre agli Stati Uniti, anche Israele lasciò l’UNESCO e il premier Benjamin Netanyhau diede istruzioni al ministero degli Esteri di preparare il ritiro della sua nazione dall’organizzazione in parallelo con Washington. A far infuriare Tel-Aviv fu il fatto che nella risoluzione UNESCO i luoghi sacri di Gerusalemme, inseriti nei patrimoni storici da proteggere, fossero stati denominati usando solo il termine arabo “Al Haram al Sharif” (in italiano “Spianata delle Moschee”).
Lo scontro a distanza con Pechino
Ma quali sono i reali motivi dietro all’attuale inversione di rotta di Washington? In primo luogo, una motivazione è la ritrovata tranquillità diplomatica tra le parti in causa (UNESCO-Usa) che hanno raggiunto un compromesso sull’origine delle frizioni, ovvero le votazioni sui luoghi islamici situati nei territori palestinesi occupati. La direttrice generale dell’Unesco, l’ex ministra francese Audrey Azoulay, è riuscita infatti a stabilizzare la situazione, allontanando le polemiche dall’organizzazione.
In secondo luogo – e qui entra in gioco la Cina – gli Stati Uniti si sono finalmente resi conto che la “politica della sedia vuota” non fa che agevolare Pechino, che da secondo contribuente dell’UNESCO, dopo che Washington ha lasciato l’organizzazione nel 2018, si è ritrovato a ricoprire il ruolo di finanziatore principale.
Infatti, è bene ricordare come l’organizzazione delle Nazioni Unite non si occupi soltanto di selezionare i siti patrimonio dell’umanità, ma sia coinvolta anche nei programmi formativi (come quello della ricostruzione di Mosul in Iraq), della difesa della libertà di stampa o ancora di collaborazioni scientifiche.
Perciò, l’importanza data dalla Cina all’agenzia UNESCO s’inserisce in un sistema di relazioni internazionali di ampissimo respiro che in futuro potrebbero consentire a Pechino di sviluppare una diplomazia basata su aspetti culturali, oltre che economici. Dimostrazione ne è il fatto che, negli anni più recenti, al fine di incrementare la diffusione della lingua cinese all’estero, Pechino ha già promosso lo sviluppo di progetti culturali che orbitano attorno alla nuova Via della Seta, con investimenti sempre più imponenti.
Un ulteriore aspetto riguarda, infine, la recente questione dell’intelligenza artificiale e i tentativi di regolamentarla. Con il suo rientro nell’UNESCO, Washington punterebbe a controbilanciare l’influenza cinese anche nel settore delle nuove tecnologie, eletto da Pechino a vettore ideale per la diffusione della cultura cinese nel mondo.