Michele Marsonet
Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane
Gli attuali problemi della Cina rappresentano un intricato labirinto di sfide che mettono alla prova sia la leadership del Partito comunista che la resilienza della nazione stessa. Le implicazioni di questa crisi sfuggono all’analisi superficiale, coinvolgendo questioni economiche, politiche e sociali di portata epocale. In mezzo a una serie di questioni, dalla bolla immobiliare all’evoluzione dell’ideologia statale, la Cina naviga in acque inesplorate, con conseguenze ancora incerte per il suo futuro.
Se qualcuno sostiene di aver capito tutto della crisi che sta attualmente attraversando la Repubblica Popolare Cinese, sta semplicemente mentendo. In realtà non lo capiscono nemmeno i cittadini cinesi. E vi sono fondati motivi per sostenere che neppure il governo di Pechino e il Partito comunista (che sono, poi, la stessa cosa) lo abbiano realmente compreso.
La bolla immobiliare che coinvolge i colossi delle costruzioni come “Evergrande” e “Country Garden” è soltanto la puta di un iceberg che ha radici molto profonde. A essa, infatti, si abbinano la brusca frenata del Pil, l’impetuoso aumento della disoccupazione giovanile e la difficoltà di tornare alla normalità dopo gli innumerevoli e prolungati lockdown che le autorità avevano imposto durante la pandemia di Covid 19.
Per capirne qualcosa di più è necessario valutare le conseguenze della svolta impressa al Partito da Xi Jinping dopo il XX congresso. Xi ha eliminato la collegialità che lo caratterizzava sin dalla scomparsa di Mao Zedong, e ha inaugurato una politica basata sullo slogan “un uomo solo al comando” (vale a dire lui stesso).
Non solo. Xi ha abbandonato il pragmatismo economico adottato dai suoi predecessori privilegiando l’ideologia rispetto all’economia. Di qui il ritorno in grande stile al marxismo-leninismo come ideologia ufficiale dello Stato, e i numerosi colpi inferti ai tanti “tycoons” del Paese. Jack Ma con il suo gruppo “Alibaba” è stato solo il primo esempio, cui molti altri sono seguiti.
I suddetti “tycoons”, però, erano a capo – e avevano fondato – aziende innovative che producevano ricchezza per l’intero Paese. Tutti avevano in tasca la tessera del Partito ma si permettevano, di quando in quando, di criticarlo. Situazione inaccettabile per Xi e il suo gruppo dirigente, che non hanno esitato a deprezzare i gruppi innovativi pur di stringere le maglie del controllo politico sulle attività economiche.
Una svolta epocale, insomma, che ha decretato la fine della politica pragmatica inaugurata da Deng Xiaoping negli anni ’70 del secolo scorso facendo ripiombare il Paese nel dirigiamo più spinto. Ciò ha decretato pure la fine di due ossimori diventati molto popolari: “Socialismo di mercato” e “Capitalismo di Stato”. Si tratta, per l’appunto, di due ossimori cui non corrisponde alcunché di reale. Xi pensa ancora alla Cina maoista dove circolavano soprattutto biciclette, e questa sua visione ideologica ha causato una crisi che, per ora, è soltanto economica, ma che potrebbe in futuro diventare anche sociale. Ai cittadini cinesi il Partito aveva promesso, in cambio della pace sociale, una crescita economica costante e una ricchezza più diffusa.
Può darsi, come molti affermano, che il “nuovo imperatore” intenda uscire dalla crisi soffiando sul fuoco del nazionalismo e accelerando i preparativi per l’invasione di Taiwan. Nessuno sa, tuttavia, quanto sia davvero forte il nazionalismo nella Repubblica Popolare, e quanti siano i cittadini cinesi disposti a morire per conquistare la ex Formosa. In ogni caso è evidente che, con Xi, la Cina ha subito una mutazione genetica di cui è per ora impossibile prevedere le conseguenze.