Film, libri, serie TV. Il filone della post-apocalisse continua stabile da ormai un ventennio. La fine del mondo vende, ma ormai pare essere presentata come il necessario reset per poter ricominciare da capo.
Glamorization dell’apocalisse: Come il mercato dell’intrattenimento vende la fine del mondo – Una crisi nucleare, un cataclisma naturale, un virus, o perché no, degli zombie. Il tema dell’apocalisse è ormai ai cardini del mercato dell’intrattenimento, come prova il recentissimo successo per serie TV come Fallout e The Last of Us.
Il genere post-apocalittico, non nuovo ma molto in voga nell’ultimo decennio, è però cambiato nel modo di presentare la fine dei tempi, muovendosi adesso nella direzione di un processo quasi auspicabile, il necessario e naturale decorso della società capitalista, e creando così un obbligatorio parallelo fra il collasso del tardo capitalismo e l’armageddon.
Così, il genere del nuovo millennio riflette e alimenta la mentalità che ne fa uso, quella di una sconfortante rassegnazione alla catastrofe, e una speranza orientata per ciò che verrà dopo, scordando così che il punto dell’apocalisse è proprio che un dopo non ci sarà.
Dalla distopia alla post-apocalisse, generi creati in momenti di crisi.
1984 è un romanzo così famoso da essere citato da molte persone che non lo hanno mai letto. Pubblicato nel 1948, il libro di Orwell immagina un futuro dove l’autoritarismo più assoluto è diventato realtà. Winston Smith vive in un mondo gramo, dove regna l’insicurezza e la tragedia. 1984, come diranno le molte persone che non l’hanno mai letto, è un monito.
Le condizioni aberranti e squallide dei romanzi di Orwell, Huxley e Bradbury, “triangolo sacro” del genere distopico, riflettono tutte, in un modo o nell’altro, lo sconsolante terrore di un futuro incerto, dove la paura del dilagare del fascismo si trasforma in un avvertimento per il lettore, in un invito a considerare il valore della libertà umana e delle conseguenze sottostanti all’accentramento del potere nelle mani dei pochi.
Il genere distopico, nato a cavallo della seconda guerra mondiale e tuttora ben affermato, si afferma in un momento di crisi sociale nell’occidente, e tenta di immaginarne il peggior finale possibile. Fahrenheit 451 si conclude nello sgancio di una bomba atomica (spoiler per un romanzo del 1953), e di un tentativo incerto del protagonista di aiutare a ricostruire quanto possibile, e 1984 termina in una desolante sconfitta di Winston Smith, spezzato dagli organi di potere del Grande Fratello. Si tratta di opere di finzione dal tono cautelare, in cui l’invito all’azione è sempre implicitato, come conferma dopotutto l’intervento di Orwell sul fronte spagnolo durante la guerra civile. Nella distopia del primo periodo esiste speranza, quella di poter cambiare le sorti del pianeta per evitare il grigio futuro frutto della fantasia degli autori.
Durante il periodo della guerra fredda, la fantascienza ritornerà alla distopia e ai suoi estremi, con l’avvento dei sottogeneri punk. In ciascuno, la fine del mondo, prossima o ormai passata, viene, in un certo senso, ridecorata. Nel genere Cyberpunk, il tardo-capitalismo ha raggiunto i suoi estremi più esagerati, dando vita a un nuovo ordine globale governato da aziende e multinazionali, dove la tecnologia è diventata uno strumento di completo controllo e gestione delle sempre più povere masse.
Però.
Questa visione infernale di un mondo sempre più vicino al collasso riceve anche una sua romanticizzazione, il suo “però”. Le società immaginate nei futuri Cyberpunk presentano ad esempio spesso (non sempre) elementi di maggiore libertà sessuale e di eguaglianza orizzontale. Il futuro rappresentato in classici come Blade Runner, anche se icona di tutte le paure di una società spinta verso i suoi eccessi capitalistici, esercita un fascino, si propone come una versione iperbolica del sogno americano. Insegne al neon sfavillanti per distrarre da un pianeta sempre più vicino al collasso. La città del dark future è una ragnatela ipnotica e seducente.
Il futuro presentato nei prodotti di fantascienza punk è presentato con nichilismo, il cui messaggio principale diventa “adattati o muori”. Differentemente dalla letteratura distopica del primo novecento, non è più un avvertimento, ma un esercizio di rassegnata fantasia dove alberga un sentimento di evasione. E infatti, anche l’oscura ribellione delle Intelligenze Artificiali in Terminator è sempre decorata da quella patina di machismo anni ’80 dai tratti epici ed eroici. Lo stesso vale per il franchise Mad Max (1980): l’adattamento (in senso molto lato) del racconto breve Un ragazzo e il suo cane di Harlan Ellison, appartenente al genere Dieselpunk – fra i primi a trattare gli argomenti della post apocalisse – racconta le vicende di un anti-eroe costretto a sopravvivere nei territori desolati degli Stati Uniti in seguito alla catastrofe atomica.
Lo squallore del mondo viene contrastato dall’individuo in questo periodo, che affronta la devastazione e gli effetti ultimi della società in cui si trova con lo spirito del guerriero e con una violenza che viene non solo giustificata, ma resa epica e grandiosa, perché “giusta”. O almeno, più giusta di quella dei propri avversari. I sottogeneri punk presentano infatti, per loro stessa natura, un atteggiamento di rivolta a costrutti sociali troppo grandi per essere smantellati o aboliti, sfociante in sentimenti di rabbia e di impotenza nei confronti del futuro, dove a restare è solo l’azione del singolo nei confronti della propria piccola esistenza, incapace di sentirsi parte di una comunità.
La rappresentazione della fine del mondo nel nuovo millennio
A cavallo del nuovo millennio, i gusti cambiano ulteriormente. Fra gli anni ’90 e il 2010 il genere catastrofico spopola nei cinema, sfornando uno dopo l’altro prodotti ritraenti ogni variante possibile di apocalisse. Invasioni aliene e zombie, certo, ma soprattutto il cambiamento climatico comincia a inserirsi appieno fra le ansie delle nuove generazioni, come dimostrato in The Day After Tomorrow.
L’interesse di questi blockbuster di discutibile qualità si concentra sull’attimo del collasso, su come gestire un cataclisma che comincia ad essere avvertito come sempre più vicino. Inaspettato, certo, ma anche inevitabile, e i cui segnali precedenti sono stati ignorati. Le apocalissi si presentano come diluvi universali di origine quasi divina, da cui solo pochi Noè riescono a salvarsi, sempre con il buono spirito di intraprendenza di stampo statunitense.
Anche nei casi dove ad essere affrontato è l’aftermath, ossia la vera e propria post-apocalisse, il mondo a seguire è uno senza speranza, popolato da un genere umano il cui destino è obbligatoriamente quello di estinguersi: Io sono Leggenda, Children of Men ma soprattutto La Strada, bestseller del premio Pulitzer per la letteratura Cormac McCarthy, universi dove ciò che resta dell’uomo è uno strascico destinato a finire presto, schiacciato dai suoi vizi. Nella scena madre de La strada, il bagno del figlio del protagonista in una pozzanghera diventa un momento unico e importante perché, in mezzo alla devastazione, non aveva mai avuto modo di farlo.
Dopo la fine – Glamorization dell’apocalisse, da Wall-E a Fallout
In Realismo capitalista, Mark Fisher racconta della “normalizzazione della crisi”, ossia di tutti quei processi, mediatici o meno, che hanno portato il cittadino occidentale a sentirsi sempre inserito in una situazione di crisi sociale, economica, climatica. Processi evidenziati nella cinematografia e nell’intrattenimento degli ultimi quindici anni, in cui la fine del mondo è diventato un argomento come un altro, un genere anzi quasi ormai vuoto di significato, riempito com’è stato di contenuti.
Un ruolo importante è giocato dal mercato videoludico, per il quale il setting di città rase al suolo e deserti radioattivi si presenta come un facile punto di vendita, trasformando la fine del mondo in un prodotto come un altro, e basta vedere il numero di franchise sviluppati negli ultimi anni a tema post-apocalittico per farsene un’idea: The last of Us, Fallout, Metro 2033, Horizon: Zero Dawn, The Walking Dead, Death Stranding, l’intero articolo potrebbe continuare molto a lungo solo nello stilare una lista di titoli in cui il concetto principale è quello di raccontare le storie dei sopravissuti al crollo della società.
Ciò che è cambiato, forse anche per la natura stessa dei nuovi gusti di consumo dell’utenza, è che l’apocalisse ha smesso di essere l’apocalisse. Paradossalmente, anzi, la fine è sotto molti punti di vista auspicata come un necessario “nuovo inizio”. Lo stesso vale per il film di animazione WALL-E, ad esempio, dove è la nascita di una pianta a permettere l’idea di una ripopolazione del pianeta Terra, reso inabitabile dall’uomo dopo che le sue azioni lo hanno portato a sommergerlo di rifiuti.
E la Wasteland si muta, sotto molti aspeti, in una nuova frontiera – tema cardinale nella letteratura e nei media statunitensi – un luogo selvaggio e ostile da colonizzare. Non a caso infatti il personaggio del cowboy, in un modo o nell’altro, appare spesso in questa “nuova” post-apocalisse.
Anche questi “nuovi punti di partenza” affrontano attraverso metafore le paure contemporanee: il ritorno alla guerra nucleare, un virus, un batterio o un fungo alle radici di una pandemia globale, le conseguenze a lungo termine dell’incuranza umana verso la natura, la sempre presente ombra della guerra globale. Ma si concentrano sul periodo di ricostruzione, sull’ipotetico “dopo”. Un dopo connotato da tratti ambivalenti, in cui domina la violenza ma anche in cui nascono nuove alternative, in cui il contatto umano assume nuovi tratti di sincerità e trova una rinnovata spontaneità.
La fine del capitalismo è la fine del mondo
“È più facile immaginare la fine del mondo che del capitalismo.” Così inizia uno dei più famosi saggi del nuovo secolo, Realismo capitalista di Mark Fisher. La citazione, attribuita al filosofo Slavoj Žižek, si adatta perfettamente ai franchise post-apocalittici di successo degli ultimi tre anni: The Last of Us e Fallout. In entrambe le serie TV di fama, gli Stati Uniti vengono devastati in un caso da un’infezione miceliale e dall’altro dalla guerra nucleare.
Quello che accomuna ulteriormente le due serie è però l’interesse nel dimostrare come la caduta del bastione del capitalismo corrisponda all’unica
possibile soluzione per ricercare in seguito – troppo tardi – delle alternative. Particolarmente esemplificativo a questo riguardo è una scena di The Last of Us, dove i protagonisti si trovano, in seguito a varie peripezie per città infestate e micro-governi autocratici, in un piccolo paesino paradisiaco, che viene chiamato senza mezzi termini “una società comunista“.
Ancora più lampante in questo contesto è la satira del mondo fantascientifico di Fallout, dove una manciata di CEO dà il via a una guerra nucleare fra la superpotenza americana e quella cinese in nome di una crescita del profitto, rappresentati come psicopatici senza alcuna visione delle conseguenze delle proprie azioni, e i cui resti nel futuro sono derisi e disprezzati dai residenti della “nuova America”, una wasteland frammentata e in costante conflitto fra fazioni che, come afferma uno dei protagonisti “vogliono rendere il mondo un posto migliore, ma non si trovano d’accordo su come farlo”.
Viene allora a crearsi un doppio nodo nel mercato dell’intrattenimento, quello per cui la “normale e unica” fine del capitalismo come struttura sociale corrisponde al cataclisma di proporzioni globali, e solo in seguito sarà possibile tentare di costruire società più eque, sempre comunque rappresentate come contenute, instabili e preda di una violenza sistemica, in una sorta di dimostrazione che la macchina capitalista esiste nel nostro mondo globalizzato come l’unica realtà possibile, per quanto fallace.
E così, l’asticella viene spostata. L’apocalisse e la distopia hanno smesso di appartenere a generi volti ad avvertire, ad essere storie cautelari sull’accentramento di potere nelle mani dei pochi, e sono invece diventate un prodotto. L’apocalisse, il momento della fine, perde di importanza, tanto che è relegato nei flashback dei personaggi, o appare solo brevemente nell’introduzione. La catastrofe viene percepita come inevitabile, e l’attenzione si muove verso che fare successivamente. La fine del mondo diventa content, un prodotto per vendere la speranza che ci sia qualcosa dopo, per vendere, usando uno slogan degli ecologisti, un “pianeta B”. Distrutto, certo, in preda al caos, ma ancora popolabile, ancora in grado di ospitare vita umana e, chissà, con un po’ di buon duro lavoro e olio di gomito, capace di essere ripopolato e civilizzato secondo nuovi modelli.
Ironico, considerando che Fallout è stata finanziato e distribuito da Amazon, lo stesso titano che nel 2022 ha generato 943.000 tonnellate di plastica attraverso il packaging dei propri prodotti.
Così, l’intrattenimento propone delle alternative per un nuovo futuro, ma solo dopo il suo spolpamento da parte di un mercato sempre più gonfio e sempre più follemente intenzionato a far crescere i propri interessi, che si accusa da solo dei crimini che commette, ma chiede allo spettatore di aspettare, essenzialmente, che imploda, promettendo di lasciare a chi sopravvive quel che resta.
E la fine del capitalismo diventa la fine del mondo.