Torre Annunziata, Napoli. È la notte di San Silvestro del 2007, Napoli festeggia e attende con speranza l’arrivo del 2008. Tra i tanti che attendono c’è Giuseppe Veropalumbo. È in casa con la sua famiglia. È in casa Giuseppe Veropalumbo, ma non sa che ad attenderlo non c’è il nuovo anno, ma la tragedia. Ci sono gli amici, i parenti, la moglie Carmela Sermino e la la loro figlioletta Ludovica di appena 14 mesi. Sono tutti insieme a festeggiare al nono piano di una palazzina in via Vittorio Emanuele. Ore 23:15, un proiettile sparato da qualcuno per “festeggiare“, lo raggiunge al petto. Per il carrozzerie Torrese non c’è niente da fare. Inutile la corsa in ospedale. Giuseppe Veropalumbo aveva solo 30 anni. Morire a trent’anni non si può. Morire in quel modo è assurdo. Giuseppe ha avuto la sfortuna di trovarsi nella roccaforte del clan Gionta. Solo i camorristi possono sparare con armi da fuoco per festeggiare a loro modo l’arrivo del nuovo anno. Nella loro stupida e ottusa visione della vita, festeggiare così è un messaggio, una dimostrazione di superiorità. E in quella zona, solo i Gionta possono permettersi di avere armi ed usarli. Da quella maledetta notte, c’è una donna che chiede giustizia. Sono dieci anni che lotta ostinatamente per ottenerla. Non c’è pace senza giustizia diceva qualcuno. Non ci può essere pace. Carmela Sermino lotta, va avanti con determinazione per arrivare alla verità. Suo marito Giuseppe non è stato ucciso per un atto scellerato di una persona qualunque. Giuseppe è vittima di camorra. Per lo Stato non era il caso di indagare oltre, Giuseppe è morto per un proiettile vagante. Così nel 2013 le indagini vengono chiuse. Ma tre anni dopo, a luglio 2016 la svolta. Un pentito di camorra, ex killer per conto dei Gionta e che sta scontando l’ergastolo per aver ammazzato un pregiudicato, durante un interrogatorio avvenuto in carcere, racconta agli inquirenti che quella maledetta notte, a sparare nella casa di Giuseppe Veropalumbo, fu un affiliato al clan Gionta. Così Michele Palumbo detto “Munnezza ” 46enne ex killer dei Gionta, punta il dito su C.C trentottenne pregiudicato. Carmela Sermino, vedova di Giuseppe, come riportato su, è dal 2008 che si batte. Alla morte del marito si è ritrovata sola e con una bambina piccola da crescere. La prima persona a correre in suo soccorso, all’epoca dei fatti fu il cantante Nino D’angelo . Per un certo periodo lavora nella segreteria del teatro Trianon, poi la crisi che non risparmia nemmeno lei. Perde il lavoro ed inizia a scrivere appelli a destra e a manca, ma la politica è sorda e lo Stato assente. Non si perde d’animo e porta avanti le sue battaglie : avere giustizia e dare una vita dignitosa a sua figlia. Conosce le associazioni , il “Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della criminalità”, e l’associazione Libera tra tutti. Oggi Carmela è presidente dell’Osservatorio per la legalità di Torre Annunziata. Nell’agosto del 2016, l’allora sindaco Giosuè Starita, le ha assegnato un bene confiscato alla camorra appartenuto ad Aldo Agretti, figlio della sorella del boss Valentino Gionta. È il primo caso in Italia. La prima volta un bene confiscato alle mafie non viene destinato ad un’associazione ma ad un familiare di una vittima. Tutto sembra andare per il verso giusto, caso riaperto impegno civile, lavoro e questo. Poi come spesso succede arriva la doccia fredda.
La sentenza Beffa Carmela Sermino chiede allo Stato italiano di inserire Giuseppe Veropalumbo tra le vittime della camorra. Ma il tribunale di Napoli non è del suo stesso avviso. Il giudice Manuela Fontana, respinge la richiesta, negando così nei fatti, anche la possibilità di attingere dal fondo che la leggi 302/90 e 407/98 prevedono per i familiari di vittime della criminalità organizzata. In parole povere, siccome le indagini non hanno assicurato alla giustizia nessun responsabile, la famiglia Veropalumbo non ha diritto a risarcimenti e danni. Ingiustizia è fatta. “Quando ho letto la sentenza, ci sono rimasta male. Una doccia fredda, non me l’aspettavo “ dice Carmela Sermino e aggiunge: “mi chiedevo perché è stata rigettata. Giuseppe era un ragazzo di trent’anni onesto e padre esemplare. Quella pallottola non s’è l’è cercata, anzi, è entrata prepotentemente in casa, luogo sicuro. In base a che cosa si rigetta una richiesta di giustizia? Lo Stato sa che il luogo da dove è partito il colpo è un’ambiente ad alto tasso di criminalità. Lo sa, ma non mi ha saputo difendere, non mi ha dato sicurezza. Ma purtroppo il colpevole non è stato mai trovato e nonostante che due procuratori abbiano espresso parere favorevole dichiarando che Giuseppe è vittima indiretta della camorra, e nonostante ci siano due pentiti che in questi anni hanno avvalorato la tesi, lo Stato ha voluto applicare puntigliosamente la legge”. C’è da dire, che il mattino del primo gennaio 2008, sotto alla palazzina in via Vittorio Emanuele, furono rinvenuti ben 300 bossoli di vario calibro, ma come la stessa Carmela puntualizza: “Giuseppe è stato colpito alle 23:15 e non durante i festeggiamenti a mezzanotte, fatto che rafforza ancora di più l’atteggiamento criminale camorristico, atteggiamento che non tiene conto il rispetto della vita umana”. Quella notte a sparare furono in tanti, altri sei colpi vennero rinvenuti, oltre al nono piano, anche al quinto, al settimo e addirittura al dodicesimo piano. È giustamente amareggiata Carmela Sermino che intanto insieme al suo legale prepara il ricorso al Tar. “La giudice Manuela Fontana ha trattato il caso con sciatteria e senza il dovuto rispetto, ha sbagliato perfino il mio cognome –nella sentenza infatti si legge “Sequino” e non “Sermino“- dimostrando così approssimazione che non ti aspetti da un rappresentante dello Stato”.