Il 14 giugno 2008 Giuseppe Uva moriva dopo aver trascorso la notte nella caserma di Varese. Dopo la sentenza della Cassazione del 2019, che aveva assolto in via definitiva tutti gli imputati, i legali della famiglia Uva avevano annunciato il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ora la Corte di Strasburgo si è pronunciata al riguardo.
Ricorso accolto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
Lo fa sapere l’ONG A buon diritto, commentando che “l’iter potrà ancora essere lungo e l’esito non affatto scontato” ma che “l’ammissione del ricorso è già un fatto importantissimo”.
Infatti è proprio la Cedu che, negli anni, è intervenuta per fare giustizia, denunciando lo Stato italiano quando si era dimostrato strutturalmente debole, come nel caso delle torture della scuola Diaz e di Bolzaneto.
La decisione della Corte di Strasburgo mette in discussione la correttezza del processo e della sentenza del caso Uva. Sono quattro i punti del ricorso presi in considerazione. In primo luogo Uva è stato sottomesso a trattamenti disumani e degradanti, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Ancora, lo Stato italiano non si è adoperato a sufficienza per accertare i fatti. Il terzo punto riguarda la tardiva introduzione, in Italia, del reato di tortura, entrato a far parte del codice legislativo solo nel 2017. Infine, nel processo di secondo grado non sono stati riascoltati i testimoni, violando le disposizioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
La sentenza della Cassazione: una morte senza colpevoli
Nel luglio 2019 la Cassazione ha emesso la sentenza definitiva, assolvendo i due carabinieri – Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco- e i sei poliziotti -Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Focarelli, Bruno Belisario e Vito Capuano- accusati di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona. Gli imputati erano già stati assolti in primo grado e in appello prima dal tribunale di Varese e poi dalla corte d’assise di Milano perché il fatto non sussiste. Secondo la Corte Suprema “anche volendo ammettere che Giuseppe Uva disse di essere stato percosso o che urlò ‘assassini mi avete picchiato’, fatto sta che di quelle violenze fisiche non vi fu alcun riscontro”. Per cui, secondo i Supremi Giudici, sul corpo tumefatto di Giuseppe Uva non esiste alcun riscontro di violenze fisiche.
Valter Mazzetti, segretario generale dell’Fsp Polizia di Stato, aveva commentato la sentenza sottolineando “l’innocenza indubitabile” delle forze dell’ordine, unendosi così al giubilo degli avvocati degli imputati che si compiacevano del loro lavoro, soddisfatti perché finalmente la giustizia aveva dimostrato ciò che avevano sempre sostenuto, e cioè che “carabinieri e poliziotti agirono rispettando le regole del nostro ordinamento”.
Sembra una beffa, un paradosso. Un’assurda realtà in cui aspettiamo tutti Godot. Già perché con questa sentenza lo Stato italiano chiude gli occhi di fronte all’ennesimo caso di malapolizia. Nessuno ha ucciso Giuseppe Uva, ci stanno dicendo i giudici.
La vicenda di Giuseppe Uva
Quello di Uva è un caso pieno di ombre, tortuoso, in cui, secondo le indagini, di certo c’è ben poco. Di certo c’è che nella notte tra il 13 e il 14 giugno 2008 Giuseppe Uva e l’amico Alberto Biggiogero vennero fermati da una pattuglia dei carabinieri e da due pattuglie della polizia per disturbo della quiete pubblica, reato che non consente l’arresto in flagranza. Né il fermo né l’arresto vennero mai notificati, e non ci fu nessuna comunicazione con il magistrato di turno. Di certo c’è che Uva, dopo essere stato trattenuto illegalmente in caserma per alcune ore, venne trasferito all’ospedale di Circolo di Varese per un trattamento sanitario obbligatorio, dove morì per un arresto cardiaco alle 10:00 di mattina.
Fu quel pomeriggio che ebbe inizio il doloroso e paradossale calvario giudiziario della sorella. Lucia Uva venne chiamata in obitorio per il riconoscimento del fratello. Le presentarono un corpo martoriato: lividi sul viso e sulla nuca, una costola sollevata, bruciature di sigaretta sul collo, sul viso, sulle mani. Un ginocchio era fuori posto, le braccia blu, segni anche sulle piante dei piedi. I testicoli mostravano segni di colpi, c’era sangue nell’ano. Gli slip di Giuseppe erano spariti, indossava un pannolone che, come i pantaloni, era sporco di sangue in corrispondenza del retto. Una scena raccapricciante, sintomatica del marciume che troppo spesso avvelena il nostro sistema di “ingiustizia”.
Un processo controverso
L’accusa sostenne dall’inizio che Giuseppe avesse subito percosse. Invece i pm a capo dell’indagine, Agostino Abate e Sara Arduini – entrambi sanzionati dall’Istituto Superiore della Magistratura per non aver svolto correttamente le indagini-, si concentrano su quanto accaduto in ospedale e sui medici, gli unici imputati -poi assolti- del primo processo. Solo con cinque anni di ritardo verrà sentito dai giudici il testimone oculare: Biggiogero. Quest’ultimo denunciò da subito il pestaggio ai danni di Uva, sostenendo che, quella notte in Via Saffi, sentiva giungere da una stanza attigua le urla dell’amico e i suoi gemiti di dolore. Bisognerà aspettare il 2016 prima che venga emessa una sentenza a carico dei due carabinieri e dei sei poliziotti.
Giuseppe Uva: una morte durata 13 anni
Nonostante l’iter giudiziario si sia concluso con l’assoluzione, 13 anni dopo Lucia Uva non è disposta a lasciare perdere. Va avanti urlando contro tutti per ottenere giustizia. Minuta, schiacciata dal peso del dolore, con gli occhi gonfi di pianto, no si è mai concessa il lusso di vivere nell’intimità della famiglia il lutto per il fratello. Si è incamminata senza paura in questo processo controverso, fatto di indagini lacunose, offese, insulti, umiliazioni, sino a una querela per diffamazione aggravata per aver denunciato “fatti non veri e lesivi dell’onore e il prestigio” delle forze dell’ordine. Come se non sia disonorevole ammettere che Uva, mentre era nelle mani dello Stato, è morto senza un colpevole. Ora Lucia spera che a Strasburgo ci sia un giudice disposto a fare luce su questa amara vicenda.
“Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte”
In Italia le vittime dello Stato non smettono di morire. Muoiono in indagini scorrette, spesso inquinate, nella legge che non è uguale per tutti. Muoiono nelle offese, nelle umiliazioni, nelle calunnie. Di loro si racconta sempre che sono drogati. Che la morte giunge a causa della malnutrizione, della loro vita dissoluta, o perché in ospedale rifiutano le cure. Sono pazzi, che non si riescono a tenere fermi, autolesionisti che si buttano contro i muri e cadono dalle scale. La verità è che prima sono vittime delle percosse di chi dovrebbe proteggerli, e poi di un sistema omertoso e fascista. Vittime di uno Stato che si assolve, incapace di giudicare i reati di polizia, sempre pronto a difendere l’onore della divisa. Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Carlo Giuliani, Aldo Bianzino. Quanti ancora?
Camilla Aldini