Giuseppe Di Matteo ha 12 anni e vive nel palermitano. È un bambino normale, gioca, va a scuola ed è appassionato di equitazione, ma ha un enorme problema: suo padre, Santino, è un mafioso pentito. I vertici di Cosa Nostra non possono assolutamente permettergli di rivelare informazioni sul sistema, occorre quindi mandare un messaggio: il 23 novembre 1993 Giuseppe viene rapito. Venticinque mesi dopo, l’11 gennaio 1996, il bambino viene vigliaccamente strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido. La mafia uccide anche i bambini.
Giuseppe e Santino Di Matteo
Giuseppe Di Matteo nasce a Palermo nel 1981, in una famiglia legata alla criminalità organizzata. Il padre Mario Santo, conosciuto come Santino, collabora attivamente con i Corleonesi svolgendo incarichi di vario tipo, dal preparare la Strage di Capaci al nascondere latitanti come Giovanni Brusca (membro di spicco del clan ed esecutore materiale dell’attentato, il quale nei mesi trascorsi nascosto nella tenuta dei Di Matteo stringe un rapporto di amicizia con li figlio di Santino). Il piccolo Giuseppe trascorre l’infanzia come un normale bambino, giocando, andando a scuola e praticando l’equitazione, disciplina di cui è profondamente innamorato. La spensieratezza giovanile però non è destinata a durare. Nel 1993 Santino viene arrestato, decide di pentirsi e diventare collaboratore di giustizia; per Giuseppe Di Matteo è l’inizio della fine.
Alcuni importanti esponenti di Cosa Nostra, in primis Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro, decidono di prendere provvedimenti contro quei componenti del commando dell’attentato di Capaci che stavano collaborando con la polizia: viene deciso il sequestro del dodicenne Giuseppe Di Matteo, in modo da mandare un chiaro segnale al padre Santino. Il 23 novembre 1993 alcuni uomini travestiti da poliziotti sequestrano il giovane Di Matteo al maneggio di Villabate, lo legano e lo lasciano in un magazzino a Lascari, rinchiuso dentro un furgone. Alla famiglia vengono mandate nei giorni successivi due foto del bambino ed un biglietto con sopra scritto “tappateci la bocca“, facendo capire che per rivedere suo figlio Santino avrebbe dovuto smettere di collaborare e ritrattare tutto.
A nulla servono le denunce di scomparsa della madre, Francesca Castellese. Dal 1994 al 1995 il bambino viene spostato in varie prigioni disseminate per tutta la Sicilia, senza poter avere alcun contatto con la famiglia o svago di alcun tipo e infine, nell’estate del 1995, viene rinchiuso in un vano nascosto sotto il pavimento di un casolare a San Giuseppe Jato, nel palermitano. Qui il ragazzo trascorre 180 giorni senza mai uscire all’aria aperta e senza svolgere alcuna attività fisica, aspettando di essere liberato, invano. L’11 gennaio 1996 i suoi aguzzini decidono che per lui è ora di morire.
Giuseppe Di Matteo: 11 gennaio 1996
Quando Giovanni Brusca viene condannato, da latitante, all’ergastolo grazie alle dichiarazioni di Santino Di Matteo (il quale non aveva smesso di collaborare con la giustizia), sa bene quale mossa deve fare: Brusca ordina a suo fratello Enzo, a Vincenzo Chiodo e a Giuseppe Monticciolo di uccidere Giuseppe Di Matteo. L’11 gennaio 1996 i tre scendono nel vano dove è rinchiuso il prigioniero e lo assalgono; il bambino, devastato dai venticinque mesi di prigionia, offre poca resistenza ai tre assassini che facilmente lo strangolano. Chiodo descriverà il corpo di Giuseppe come “molle, tenero, fatto di burro“, questo proprio a causa della lunga mancanza di attività fisica. Dopo averlo ucciso, i tre spogliano il cadavere e successivamente lo gettano in un fusto pieno di acido, in modo da sciogliere tutto quello che rimane di Giuseppe Di Matteo.
Vincenzo Chiodo durante la sua udienza del 28 luglio 1998 racconta così la nefandezza: “Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. (…) io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire.”
Giuseppe Di Matteo è stato vittima di un omicidio vigliacco, crudele, inumano, ma che mostra chiaramente come, a discapito di alcune credenze popolari, la mafia non abbia leggi morali e nessun codice d’onore. Non ci sono altre parole da usare se non quelle di Peppino Impastato: “la mafia è una montagna di merda”.
Marco Andreoli