La fantasia degli italiani si manifesta anche nelle ingiurie. Così, a partire da “A fess ‘e mammeta” per finire a “zuzzuso“, il Dizionario giuridico degli insulti, A&B edizioni, elenca ed analizza la bellezza di 1203 tra termini, espressioni e gesti presi in cura dalla giurisprudenza nel corso di cause per diffamazione e ingiuria. Reati da codice penale – spiega l’autore Giuseppe D’alessandro-, puniti con ammende fino a 12 mila euro se non addirittura con il carcere.
Nuovi insulti tra cronaca e letteratura
L’opera tassonomica, divertente e allo stesso utile, è a cura di un cassazionista. Per ogni voce l’avvocato siciliano Giuseppe D’Alessandro si è prodigato nell’elencare le motivazioni delle Corti a sostegno delle sentenze.
Il risultato è un libro prezioso, perché quando si ha a che fare con i giudici una parola fuori posto può portare guai seri. Se l’aspetto giudiziario è di per se interessante, poiché gli italiani sono uno dei popoli più litigiosi al mondo, la raccolta aiuta a capire come è cambiato il Paese negli ultimi cento anni. Certificando anche in fatto di insulti il primato della creatività partenopea.
Le offese, come tutto ciò che è linguaggio, mutano sotto la spinta dei cambiamenti socio-culturali. Cent’anni fa si arrossiva per espressioni che adesso fanno sorridere. Ma all’epoca avere “senso del decoro” era una faccenda seria. Oggi cronaca e letteratura sono le principali fonti di approvvigionamento per gli insulti. C’è chi ha dato del “Don Rodrigo“ a Berlusconi, venendo assolto perché la definizione rientrava nel diritto di critica politica. E c’è chi invece ha ripescato il dittatore rumeno “Ceaucescu“, beccandosi una condanna in primo grado.
Il berlusconismo ha portato più di una novità sia in campo politico che linguistico. Tant’è che D’Alessandro ha dovuto registrare il grande successo dell’espressione “Papi girls“. Nata in seguito alle giovani frequentazioni dell’ex presidente del consiglio, tale definizione gossippara viene usata per le donne che fanno carriera grazie alle loro frequentazioni politiche. La formula è riuscita a togliere il primato a quella “Monica Lewinsky“, che da stagista mise nei guai Bill Clinton.
Le parole non sono innocue
Scorrendo il dizionario di Giuseppe D’Alessandro ci si accorge che non tutte le parole sono insulti. Perché, come insegna ogni manuale di linguistica, non basta la parola. L’intenzionalità comunicativa può trasformare la più innocua delle espressioni in una terribile allusione che chiede vendetta.
Ad esempio, “questo” è un pronome inoffensivo, ma se pronunciato per omettere il nome, acquista un senso dispregiativo, e si trasforma in un’offesa. Mai dare della “pecorella” a un pubblico ufficiale. Può costare una condanna per oltraggio. Se “boy scout” è rivolto a un sindaco diventa diffamazione, perché denota una persona immatura.
Anche un complimento come “onesto“, se detto con ironia, costituisce diffamazione. Alla stregua dello “smilzo” detto ad un obeso, che diventa denigratorio. E del “giocoliere” affibbiato al politico, che vuol dire voltagabbana.
Uno dei termini più in voga tra quelli inseriti nel suo elenco da Giuseppe D’Alessadro è senza dubbio quel “Pennivendoli” tanto caro ai politici di oggi. Sempre più incapaci di sostenere un confronto serio sul piano politico, si rifugiano nella sfera del personale e quindi nell’azione giudiziaria. Gli attacchi alla libertà di stampa sono ormai la prassi. Ma “pennivendoli”, secondo il dizionario, resta una parola punibile. Perché eccede enormemente il diritto di critica, vista la sua “connotazione inutilmente denigratoria e la sovrabbondanza rispetto al concetto da esprimere”. Per ora, come spiega D’Alessandro, è così. Fra cent’anni si vedrà.
Michele Lamonaca