Giuseppe Antoci e la legalità. Il “modello” Parco dei Nebrodi

Mafia
fonte: www.corriere.it

E chi lo dice che la mafia uccide solo d’estate? La mafia più “tinta e fitusa” – quella più lercia per capirci – colpisce anche in primavera. O almeno ci prova. L’agguato ai danni di Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi, la notte tra il 16 e il 17 maggio ne è la prova. E le modalità con cui è stato organizzato rafforzano l’idea che la mafia, quella tinta e fitusa, è ben lungi dall’essere estirpata.

Chi lo ha orchestrato ha chiuso la strada provinciale con dei massi. La strada che sarebbe stata percorsa dalla Lancia Thema blindata con a bordo Antoci, di rientro da una manifestazione a Cesarò. Sono strade di montagna queste, sui Nebrodi, dove all’una di notte sono diventate uno scenario da Far West, con colpi d’arma da fuoco sparati all’impazzata. Giuseppe Antoci ne è uscito illeso grazie agli agenti di scorta, che lo hanno protetto facendo da scudo, e grazie all’altra auto con a bordo Daniele Manganaro – dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello – che ha messo in fuga i banditi.

“Con l’agguato ad Antoci la mafia ha alzato il tiro, lo Stato deve reagire in modo adeguato. Propongo l’invio dell’esercito nei comuni del Parco dei Nebrodi e perquisizioni a tappeto nelle campagne, come ai tempi del sequestro Moro e dei Vespri Siciliani”, queste le dure parole del Presidente della Regione Rosario Crocetta, destinatario assieme ad Antoci, di precedenti lettere di minaccia. “Finirai scannato tu e Crocetta”, si legge dalla lettera-collage recapitata al Presidente del Parco dei Nebrodi.

Cosa ha scatenato le ire di questa mafia, tinta e fitusa? La battaglia ingaggiata dallo stesso Giuseppe Antoci sin dal suo insediamento, nel 2013, contro la mafia dei pascoli e che ha già portato a numerosi arresti nel territorio. L’agguato di qualche giorno fa non è che l’ultimo di una serie di atti intimidatori, che non hanno scalfito l’impegno del presidente nell’area protetta più grande della Sicilia, tra Messina, Enna e Catania. “Se pensano con il piombo di stanotte di avere fermato la mia azione di legalità, si sbagliano di grosso. Perché più passano le ore e più penso di essere dalla parte giusta”, ha detto Antoci dopo l’attentato.

Non si parla di delinquenza qualunque, ma della più ancestrale e radicata forma di mafia esistente in Sicilia, quella nascosta tra i boschi delle montagne e che non si fa problemi a macellare clandestinamente, uomini e animali. Una mafia che vanta tra i colletti bianchi dei vari enti locali la propria longa manus per fare soldi a palate. Risulta scomoda l’azione di Antoci, che ha bloccato il business di terreni demaniali che i mafiosi ottengono da funzionari corrotti a 30 euro per ettaro anziché 3mila e accaparrarsi in questo modo sostanziosi fondi Ue per colture biologiche mai impiantate.

Tra il 2007 e il 2013, solo in Sicilia sono arrivati 5 miliardi di fondi per lo sviluppo agricolo, tanto per dare un’idea del grande bancomat che rappresenta l’Europa per i tinti e fitusi. Su 200 milioni di euro da recuperare per le frodi in agricoltura, almeno la metà si trova in Sicilia. Pascoli abusivi, abigeati, macellazioni clandestine, furti di macchinari agricoli, frodi. Tanta di questa “erbaccia” è stata estirpata in tre anni, grazie al primo protocollo di legalità in Italia – siglato in prefettura a Messina il 18 marzo 2015 – contenente le linee guida per contrastare i tentativi d’infiltrazione mafiosa nelle procedure di concessione a privati di beni compresi nel territorio di un Parco.

Cambia tutto, tutto. Il primo requisito richiesto alle aziende che intendono gestire i terreni è un certificato antimafia, fino a quel momento obbligatorio solo per contributi superiori a 150mila euro. E’ bastato questo certificato per revocare la media di 24 concessioni su 25. Antoci ha pestato i calli ai tinti e fitusi dei “tortoriciani” e affiliati, che avendo perso (letteralmente) terreno, cercano di guadagnare margine, e alla ‘ndrangheta, “perché il protocollo che abbiamo messo in atto qui in Sicilia sarà applicato anche in Calabria”.

E ora si teme anche per il trentaquattrenne Fabio Venezia, sindaco di Troina – nell’ennese – che ha sposato la causa di Antoci, mettendosi anche lui di traverso e finendo sotto scorta. Venezia si è impegnato a indire una gara per la concessione di oltre 4mila ettari di terreni demaniali, finora gestiti da aziende che non avevano vinto alcun bando e sprovviste delle regolari certificazioni antimafia. Il giovane sindaco di Troina ha anche licenziato alcuni dipendenti coinvolti nella gestione delle terre e affiancato agricoltori nella denuncia delle estorsioni di cui sono stati vittime. Viene da pensare a Palmiro Calogero Calaciura, sindaco di Cesarò, ucciso dalla mafia nel lontano 1992 per lo stesso motivo. O forse, sarebbe meglio pensarci quel tanto che basta per sperare non si faccia il bis.

Giusto giusto, mancano pochi giorni alla commemorazione della strage di Capaci. E poi c’è quella di via D’Amelio e c’è stata quella di Peppino Impastato…insomma, capito perché non se ne può più, di questi tinti e fitusi di mafiosi?

Alessandra Maria

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