Se n’è andato, da poche settimane, Giuliano Scabia, scrittore, poeta e drammaturgo italiano, grande protagonista del rinnovamento teatrale iniziato negli anni Sessanta. Fondamentale il suo contributo allo sviluppo di quel filone, a cavallo tra l’arte, la cura e l’educazione, che oggi chiamiamo Teatro Sociale e di Comunità.
Giuliano Scabia è scomparso, in silenzio, il 21 maggio scorso. È successo in una settimana segnata dalla perdita di due altri grandi protagonisti della cultura italiana come Franco Battiato e Carla Fracci, con percorsi artistici più celebri. È giusto, però, ricordare che la sua parabola umana e artistica, legata principalmente al teatro, è tutt’altro che silenziosa e defilata. Si può dire, anzi, sia impegnata e fruttuosa, tanto dal punto di vista creativo quanto dal lato politico e sociale.
Giuliano Scabia, artista totale e uomo di teatro
Giuliano Scabia nasce a Padova ottantasei anni fa e comincia il suo percorso con la poesia. Numerosi incontri e collaborazioni importanti lo spingono, da subito, a sperimentare e a cimentarsi in generi nuovi e diversi fra loro, a volte ibridi. Esplora musica, scrittura ed entrambe insieme. È l’incontro con il regista Carlo Quartucci a segnare il suo debutto ufficiale con il teatro, luogo dell’anima che non abbandonerà mai più. Fra le sue opere più celebri, Padrone e servo, All’improvviso&Zip, Il Gorilla Quadrumàno, Marco Cavallo, Nane Oca, Il poeta albero, solo per citarne alcune.
Stile e valori fondanti
Caratteristiche fondamentali della sua cifra stilistica sono un modo di raccontare fantasioso e poetico tipico dei cantastorie, la personificazione in elementi naturali e soprannaturali, l’utilizzo e la creazione di pupazzi e strutture di grandi dimensioni che creano la scena e aiutano il racconto. Scabia è una specie di folletto magico, come l’ha definito qualcuno. È un folletto con il potere della creatività.
Scabbia appartiene a quella schiera di intellettuali impegnati che, negli anni Sessanta, accostano l’arte e la cultura alla lotta politica e sociale, dando vita a una rivoluzione culturale memorabile. Ed è tra i collaboratori alla stesura del Manifesto sul Nuovo Teatro del 1967. Manifesto che si propone di ripensare il teatro, mettendo in discussione il centro, sia come spazio fisico principale che come concetto immateriale. Si ha uno spostamento degli elementi, fisici e non, dell’azione teatrale, che diventa metafora della critica culturale e politica ai centralismi, in atto in quel preciso momento storico.
Ripensare il teatro e decentrarlo
Ciò si cui si parla è chiamato “decentramento”. E, proprio sul concetto di decentramento, Giuliano Scabia impronta il suo lavoro di sperimentazione. Realizza “azioni teatrali” sempre diverse tra loro, in luoghi non nati per essere teatro, progettate per persone e gruppi sociali altrettanto differenti ed eterogenei. E’ un continuo mutare di canovacci, personaggi, prospettive e forme di interazione. Sono i vari tasselli del ciclo del “Teatro Vagante”.
Tutto si svolge nel teatro e fuori, coinvolgendo i vari tipi umani, facendo diventare attore il pubblico e, viceversa, pubblico gli attori. Perché, secondo Scabia, la lingua, la creatività e l’esperienza teatrale mutano a seconda di dove si fanno e di chi le fa.
“Coloro insieme ai quali canti modificano il tuo canto”
Dal decentramento alla socialità
Il teatro è, fondamentalmente, socialità e partecipazione. E si presta ad essere, allo stesso tempo, un grande strumento educativo per accostarsi alla molteplicità umana e alla complessità culturale e sociale del nostro tempo. Questo avviene grazie alla sua natura di metalinguaggio. È un’arte fatta di tante arti, un sapere fatto di tanti saperi e un’esperienza creativa totalizzante che coinvolge mente e corpo.
Quali modelli esperienziali?
Le azioni teatrali di Giuliano Scabia incarnano tutti queste cose. Fra i modelli esperienziali da lui pensati e messi in atto, ricordiamo il teatro decentrato in scuole, case, quartieri e centri di salute mentale, quello fatto con “schemi vuoti” ovvero canovacci da riempire e completare, l’insegnamento aperto, la scrittura collettiva e molto altro. Lui si fa, in ciò, precursore di quell’insieme di sperimentazioni teatrali, terapeutiche e pedagogiche che prende il nome di Teatro Sociale e di Comunità. Una realtà collocabile, a sua volta, nell’ambito più vasto dell’Arteterapia.
Teatro Sociale e di Comunità
L’orizzonte culturale di riferimento è descritto, molto chiaramente, in un passo del libro “Il Teatro dei Risvegli”. Si tratta di un resoconto di alcuni progetti teatrali svolti insieme a persone con esiti di coma:
“…l’esperienza artistica, e il teatro in particolare, può offrire quello spiraglio di luce e quell’appiglio di fiducia, capaci di rinnovare quello spirito vitale che sembra sopito del tutto o definitivamente perso in chi soffre. Lo stimolo artistico interviene lì dove la terapia clinica esaurisce il proprio compito e la propria efficacia; penetra nella sfera emotiva e individuale delle immaginazioni e dell’espressività compromesse, che ha bisogno di ri-tessere i fili di relazione con l’altro da sé, per ritrovarsi e riemergere. In questo ricrearsi di un linguaggio o di una visione “ponte” con il mondo esterno, anche gli “altri” arricchiscono la propria sfera emotiva e personale, in un’alchimia di scambio sensoriale e di crescita interattiva.”
Ma di cosa si tratta?
Non c’è, attualmente, una definizione ufficiale e univoca corrispondente, trattandosi di una pratica non ancora ben definita, inserita in un contesto di ricerca continua che riguarda vari ambiti.
I termini usati rimandano, più spesso, a esperienze teatrali che coinvolgono soggetti con disagi fisici o psichici, a fini pedagogici e riabilitativi (tanto che nella sua fase embrionale, intorno agli anni Settanta, si parla di Teatro della Diversità e Teatro del Disagio). A un’accezione più ampia e dettagliata si sono aggiunte, in un secondo momento, esperienze di teatro che coinvolgono detenuti, rifugiati, donne e minori vittime di violenza o abbandono e tutte quelle persone e comunità soggette a condizioni di svantaggio sociale. E si è giunti, in tempi ancora più recenti, a includere, nell’insieme dei soggetti coinvolti, tutti i tipi di comunità.
Siamo di fronte a un teatro con obiettivi sociali ed educativi, in cui l’esperienza teatrale assume una forma laboratoriale. Il laboratorio ha, di solito, come esito e prodotto finale, uno spettacolo che prevede la partecipazione attiva di teatranti e pubblico. Non è un teatro da vedere ma da fare.
Persino Ippocrate, anticamente, aveva intuito il potere terapeutico dell’arte teatrale. E proprio dall’intento terapeutico parte lo sviluppo di questo nuovo modo di intendere il teatro. Arriva, però, a superarlo e a porsi, come ulteriori obiettivi, quelli di promuovere e garantire il benessere individuale e relazionale di tutti gli individui e le comunità.
Non più solo cura, dunque, ma anche prevenzione e benessere umano e sociale.
Giuliano Scabia, visionario e precursore
Questo Giuliano Scabia lo capisce già alla fine degli anni Sessanta. E, da quello che allora è chiamato “decentramento”, arriva a porre le basi di ciò che oggi è Teatro Sociale e di Comunità.
Il decentramento torinese
È il 1969 quando, in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino, mette in atto un progetto di decentramento teatrale in quattro quartieri del capoluogo piemontese. Torino è sviluppo industriale, meta di immigrazione dal Meridione e terreno fertile per la nascita e lo sviluppo dei movimenti operai e studenteschi che rivendicano i propri diritti, in uno dei momenti di lotta politica più acerba della storia recente. Scabbia prende quattro quartieri simbolo di questi fenomeni e progetta, per ognuno di essi, una specifica esperienza teatrale che li coinvolga singolarmente. Il progetto vede inclusi il quartiere Mirafiori Sud che sperimenta il teatro di comunità, La Falchera alle prese con la scrittura drammaturgica, Corso Taranto e l’animazione per bambini, Le Vallette con il teatro di strada.
Scabia e Basaglia
Ed è, ancora, il 1973 quando, insieme a Franco e Vittorio Basaglia e altri, collabora alla creazione di Marco Cavallo. Parliamo di una scultura in legno e cartapesta, che funge da installazione, raffigurante un cavallo azzurro e realizzata all’interno del manicomio di Trieste, nell’ambito di laboratori artistici con i pazienti reclusi. L’azione teatrale legata a Marco Cavallo è, ancora oggi, il simbolo della lotta per il riconoscimento dei diritti e delle libertà delle persone con disturbi mentali, sfociata, nel 1978, nella legge Basaglia per l’abolizione dei manicomi. E la scultura è tuttora utilizzata per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle suddette tematiche.
Sono solo due fra le azioni più celebri della lunga carriera di un artista totale e visionario come Giuliano Scabia. Sono, però quelle che, maggiormente, vanno nella direzione, qui descritta, dello sviluppo del Teatro Sociale e di Comunità.
Prospettive per il futuro?
È auspicabile che artisti e intellettuali conservino e tramandino il bagaglio lasciato in eredità da Scabia e da altri. Molti, come lui, si sono occupati di diffondere la funzione sociale e la dimensione comunitaria del teatro.
Tantissimo è già stato fatto negli ultimi decenni in questa direzione. Sia in Italia che nel resto d’Europa. Ma la strada è ancora lunga se si pensa, per esempio, a quanto il teatro e le arti ad esso associate occupino un posto marginale nelle istituzioni scolastiche. È necessario recuperare e valorizzare l’importanza del legame tra teatro, cittadinanza, educazione e salute, a partire dalla didattica esercitata a scuola. Solo così la società riscoprirà il fare teatro e la creatività come prassi essenziali e funzionali al benessere umano e sociale.
Assunta Nero