Questa è la gioventù 2.0, quella dei controsensi, quella della “liquidità” tecnologica, quella interconnessa al mondo, ma sconnessa con il proprio sé
Cosa si dice riguardo la gioventù 2.0? Che “I giovani sono solo mele marce!”, che “E’ una generazione di violenti”, che “La gioventù di oggi ha perso ogni valore”. E queste sono solo alcune delle frasi che spesso udiamo a scapito dell’attuale gioventù. Sembra quasi essi siano “figli di nessuno”, nati da chissà quale concepimento demoniaco. Eppure, secondo il principio di causa-effetto, è opinabile che questi ragazzi siano frutto della modernità. Un’attualità in grado di disconnettere la realtà da quell’interiorità spesso labile e bisognosa d’aiuto.
Per contro gli adulti, figli di tradizioni perse nei racconti dei nonni, mantengono costantemente ideologie obsolete, che poco si collegano a quelle dei giovani
Nasce così un’incomunicabilità perversa, che il genitore tenta di colmare con una esasperata, quanto effimera, attenzione nei confronti del figlio. Un’attenzione questa che è rivolta esclusivamente all’affermazione personale del ragazzo. Nonché all’omologazione statica, ferma sui precetti di una società tradizionale. Ma quando il salto generazionale assume un andamento esponenziale, il vecchio si allontana sempre più dal nuovo. Così un decennio pare un secolo e man mano – sempre più velocemente – la gioventù 2.0 resta sola. Una generazione avanti anni luce, ma al contempo incastrata in un continuo e repentino evolvere. E’ una ri-creazione continua, a cui questi ragazzi sono soggetti. Chi riesce a starne al passo acquisisce informazioni e capacità utili alla sopravvivenza. Chi non riesce, invece, sfocia in un’incontinenza emozionale, impulsiva e violenta (o verso se stesso o verso chi lo circonda).
Uno dei problemi fondamentali della gioventù 2.0 è perciò la solitudine, anche nel caso in cui il ragazzo sia circondato da affetti e attenzione. E anche nonostante l’interconnessione tecnologica
Ciò scaturisce in una incomunicabilità affettiva. Adulto e giovane sono infatti come cane e gatto. Entrambi assumono linguaggi incompatibili, creando tra loro una distanza incolmabile. La morbosità genitoriale a volte tende spesso a sovraccaricare il più possibile il proprio figlio di impegni, quali sport, attività, corsi e quant’altro. Tanto che fin dalla tenera età i bambini non conoscono cosa sia la noia o l’ozio. Per intenderci, è certo che attività fisiche e ricreative facciano bene, tuttavia è anche necessario equilibrarle concedendo loro un sano “tempo morto”. Questo perché nell’ozio e nella noia il dialogo con se stessi si fa più intenso, è un’introspezione utile alla crescita e alla formazione della propria individualità caratteriale.
Un altro punto critico è la “mistificazione dell’immagine”
Questa difatti è una peculiarità arcaica, in quanto in noi è innata l’attenzione all’estetica. Un esempio calzante è l’arte che da sempre si nutre del concetto del “bello”. E l’arte stessa è in effetti una prerogativa esclusivamente umana. Dunque fin qui nulla di insolito, se non nella pericolosità dei nuovi mezzi tecnologici. La facile e istantanea propagazione dell’immagine è, in questo caso, il fattore principale del decadimento del concetto stesso di “bellezza”.
L’immagine diventa così merce inanimata, da cedere in cambio di pillole di notorietà, nella smania di una fama effimera e momentanea
Si perde perciò la propria singolarità, al fine di ottenere il consenso di un gruppo sociale standardizzato. Un’infinità di stereotipi fisici e comportamentali, che spesso dissociano dal vero io del fruitore compulsivo di mode e tendenze. Perciò la gioventù 2.0 si trova di fronte a schematici modelli preimpostati. Attributi da poter scegliere quasi fossero App aggiuntive da installare sul proprio smartphone comportamentale. E’ una continua simulazione di se stessi, che a lungo andare fa perdere il ricordo di chi si è veramente.
Ed ecco l’altra criticità di questa generazione: la perdita di eccezionalità. Tutti sono giusti se seguono il modello univoco. E l’eccezione diventa un difetto da emarginare
L’ineguagliabile è perciò un reietto da bullizzare ed escludere dal gruppo. La coesione pertanto diviene forza brutale, di massa, capace di auto-giustificarsi a fronte di ogni azione malevola compiuta dal branco. Come succede a Roma, dove una ragazza araba viene picchiata dalle proprie compagne. Il motivo? Un’etnia e una religione divergenti dallo standard del gruppo. E’ una violenza inaudita, con la reciproca complicità perfino della madre di una delle picchiatrici. L’ennesimo genitore che non si fa scrupoli nell’appoggiare spudoratamente l’atto compiuto dalla figlia. Così ogni insulto verbale o percossa diventano il simbolo del bisogno di complicità e appoggio tra generazioni, pur se totalmente privo di pietà. Poiché il connubio vecchio-giovane, se non rivolto allo scopo di un giusto precetto formativo, resta soltanto violenza di branco, dove genitore-figlio non hanno più alcuna distinzione temporale ed evolutiva.
Proprio riguardo la violenza, è necessario approfondire le motivazioni, ma soprattutto gli impulsi che portano spesso i giovani ad adoperarla. Trattasi di una sorta di “autismo emotivo”
Per capire ciò, però, sarebbe opportuno innanzitutto apprendere cosa sia la “intelligenza emotiva”. Essa è quella parte dell’intelletto che ci dà la capacità di comprendere e gestire consapevolmente gli impulsi emotivi. I professori Peter Salovey e John D. Mayer, in un loro articolo del 1990, definiscono così tale proprietà:
La capacità di controllare i sentimenti ed emozioni proprie e altrui; distinguere tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni. [… Ovvero…] Essa coinvolge l’abilità di percepire, valutare ed esprimere un’emozione. L’abilità di accedere ai sentimenti e/o crearli quando facilitano i pensieri. L’abilità di capire l’emozione e la conoscenza emotiva. [… E soprattutto ] L’abilità di regolare le emozioni per promuovere la crescita emotiva e intellettuale
Sembra perciò che molto spesso la gioventù 2.0 non sappia riconoscere l’emozione
In tal caso subentra uno smarrimento emozionale che preclude ogni accesso all’empatia. L’imperturbabilità ne è il sintomo. Come nel recente caso del duplice omicidio a Lecce, dove l’assassino – ragazzo sano e apparentemente innocuo – dopo aver massacrato e ucciso una coppia di amici, è capace di giustificare l’atto compiuto pronunciando freddamente testuali parole: “Erano troppo felici, mi hanno fatto montare la rabbia”. Questa incapacità nel distinguere la gravità dell’azione da un semplice sentimento di ostilità, giustificando l’atto come inevitabile conseguenza di un proprio passeggero turbamento, rende chiaro il prima citato concetto di “autismo emotivo”.
Assistiamo pertanto a una normalizzazione della violenza, che fa saltare in mente quella celatamente denunciata nel cartone animato “I Simpson”. Quando Burt e Lisa ridono – senza alcun cenno di turbamento – di fronte ai cruenti episodi di “Grattachecca e Fichetto”.
Riassumendo: incomunicabilità, mancanza di introspezione, solitudine, indotta omologazione estetica-comportamentale e imperturbabilità emotiva sono i punti critici che affliggono la gioventù 2.0. Ma come rimediare a tutto ciò? Ebbene, ci vuole istruzione, ma non una qualsiasi, bensì una “istruzione all’autoregolazione emotiva”
Il vuoto esistenziale è un problema che affligge molti giovani e lo stato di solitudine in cui si trovano non aiuta certo a colmarlo. E’ una sensazione straziante di sofferenza e perdita del senso della vita. Insieme anche alla disconnessione da una società che lancia continui messaggi improntati su esclusività e soddisfazione immediata. Una utile, quanto deleteria, “anestesia emotiva”. Una prima soluzione sarebbe perciò imparare a essere responsabili delle proprie azioni, dei propri pensieri e anche delle proprie scelte. Come cita ViKtor Frankl:
L’essere umano non è una cosa in più tra le altre, le cose si determinano a vicenda; ma l’uomo, alla fine determina se stesso. Quello che diventerà, entro i limiti delle sue capacità e dell’ambiente, lo realizzerà da solo.
Viktor Frankl
Quindi, al fine di una regolazione emozionale, è importante innanzitutto trovare uno scopo. Questo genere di motivazione manca spesso nella gioventù 2.0. Ciò è pericoloso, perché perdendo di vista se stessi e quello che – a prescindere dai modelli sociali – si vuole o si sente, si rischia di scaturire nel cosiddetto: vuoto esistenziale.
Il sociologo e filosofo francese Durkheim riflette molto bene sul problema dell’isolamento sociale:
Quando l’individuo si individualizza oltre un certo punto, se si separa troppo radicalmente dagli altri esseri, uomini o cose, si ritrova isolato dalle stesse fonti attraverso le quali dovrebbe naturalmente nutrirsi, senza avere più nulla a cui attingere. Facendo il vuoto intorno a sé, ha creato un vuoto dentro di sé e non gli rimane più niente su cui riflettere se non la sua stessa infelicità. Non gli resta altro oggetto di meditazione che il nulla in esso e la tristezza che ne è la conseguenza
Emile Durkheim
Serve perciò uno stimolo per far integrare i giovani attivamente in un contesto sociale. E’ necessario assimilare a pieno il concetto di “socievolezza” che è un dare-avere reciproco, ognuno mantenendo le proprie peculiarità. Fatto questo, “regolare le proprie emozioni” diventa più semplice, poiché se ne conosce ogni sfaccettatura, sia essa introspettiva, che rapportata al mondo tutt’intorno.
La gioventù 2.0 ha dunque bisogno di scopi, di qualcosa che risponda alla domanda: “Perché sono qui, perché esisto?”. Dare un significato alla propria vita è anche dare il giusto peso alle proprie azioni e anche a tutte le ripercussioni che ne possano derivare
Questa non è affatto un’epoca semplice, siamo tutti immersi in una società fluida, fatta di “molecole” che scivolano continuamente tra il reale e il virtuale. E’ un’epoca dove i sogni si realizzano e si distruggono in un batter d’occhio. Tutto scorre e si sovrappone, si interseca intrecciando la rete della connessione cibernetica. Questa non è più né modernità, né post-modernità. Questa è l’era della trascendenza: la soprannaturalità tecnologica in continuo contrasto con l’impulso umano di emotività e bisogno recondito di percezione corporea. Cerchiamo dunque di comprendere: in fondo i giovani vogliono solo trovare un posto adatto a loro, pur se differente dal nostro antico concetto sociale. In questo turbinio di eventi presenti e futuri, loro cercano il motivo per poter proiettare i propri sogni in un avvenire più consono al loro modo di essere. Hanno dunque, come cita Gustav Jung:
Il bisogno di trovare un significato per continuare a farsi strada nel mondo.
Carl Gustav Jung
Sabrina Casani