Essere giovane in Italia vuol dire chiedersi ogni giorno se vale la pena vivere in un Paese dove non si ricevono tutele, non c’è meritocrazia e non c’è lavoro. O se c’è è sottopagato e non rispecchia le reali potenzialità della persona. Un esempio è quello dello stage, dove si arriva a prendere 600 euro per un lavoro full-time, che impiega 8 ore al giorno e 300 euro per un part-time, che prevede un impegno di 4 ore al giorno. Dopo sei mesi molti datori di lavoro non assumono quella persona, anche se l’hanno già formata, ma preferiscono prendere un altro stagista da sfruttare.
Sono i dati dell’Istat a dircelo: in Italia il 32,8% dei giovani è senza lavoro.
E se vogliono trovarlo devono farlo prima dei 29 anni, termine utile per stipulare un contratto di apprendistato, altrimenti si è considerati “troppo vecchi”. Un’altra situazione paradossale è che quando si affrontano i colloqui viene ricercato personale con esperienza. Ma quando può averla fatta un ragazzo appena uscito dalla scuola superiore o dall’università?
Per non parlare dei lavori ottenuti per mezzo di raccomandazioni o conoscenze.
Essere giovane in Italia vuol dire avere voglia di fare, di impegnarsi, di lavorare ma senza averne la possibilità. Vuol dire essere considerati “bamboccioni”, persone che non vogliono andarsene da casa di mamma e papà e soprattutto non vogliono rinunciare ad essere mantenuti economicamente dai genitori, anche vivendo fuori casa.
Nel nostro Paese i giovani, magari con una laurea, un master e vari corsi di formazione, sono costretti a ripiegare su lavori come camerieri o baby-sitter, mansioni che avrebbero potuto ricoprire anche senza aver investito tempo, soldi e fatica nel conseguimento di un titolo di studio di cui non sanno più che farsene. Molti arrivano perfino a nascondere di essere laureati per evitare un rifiuto in quanto <<troppo qualificati>>.
Finché in Italia non si comincerà ad investire nei giovani, a dargli fiducia, possibilità, diritti, come potremmo andare avanti?