Mario Martone racconta Leopardi (1798-1837) con Il giovane favoloso, film che fa da apice al suo interesse per il poeta di Recanati, che già aveva portato a teatro con un’apposita riduzione scenica delle Operette Morali.
Per il regista è centrale la lezione dell’ultimo Rossellini didattico, grazie a cui riesce a dare un tono limpido e secco alla rassegna degli eventi e dei rapporti che segnano la vita del poeta, con una scansione a tre tempi, con tre toni diversi.
Martone però, a differenza di Rossellini, mostra ed empatizza, carica volutamente di emozioni e significato, soprattutto nella prima parte a Recanati: il periodo fiorentino e quello napoletano non mantengono costante la tensione presente nella resa del richiamo poetico, della prima fuga e dei rapporti familiari, così forti o per dolcezza (i fratelli) o per l’aura castrante (i genitori).
Il Leopardi di Martone è un disadattato, che è già Novecento all’epoca della Restaurazione, un uomo che sogna di poter godere a pieno delle passioni ma non ne ha i mezzi né lo strumento per eccellenza, cioè il Corpo.
Non ha che la Poesia per esprimersi e compensare le mancanze a livello di small talk, di interazione sociale e finanche sessuale. Per rimarcare il concetto, Martone inserisce a Napoli una scena con il poeta ed un femminiello in un lupanare: una caduta di basso livello, efficace a livello visivo per l’atmosfera cupa e ansiogena, ispirata da un testo di Enzo Moscato ma che risulta assai volgare nell’economia del racconto.
A definire Leopardi nei rapporti sentimentali bastavano già l’insieme dei non detti espressi negli sguardi palpitanti rivolti a Teresa Fattorini o il suo imbarazzo di fronte a Fanny Targioni Tozzetti.
A questa donna, interpretata da Anna Mouglalis, Leopardi dedica il Ciclo d’Aspasia: insieme alla recita dell’Infinito, quella della poesia-cardine di questa serie è uno dei momenti più raffinati, nella sua semplicità, del film intero.
Martone, ricordiamolo, non è tanto cineasta quanto teatrante, non uomo d’immagini ma di parole: il risultato è bello, ma non incandescente: ci sono troppe scene descrittive che s’addensano dopo la prima parte nel borgo natìo.
Resta il piacere di vedere Germano all’opera, completamente immedesimato nel ruolo che rende il suo poeta uomo vero con i propri desideri, mosso da affetti intensi e morbose dolcezze, aspro di fronte alle incomprensioni o alle bassezze, passivo-aggressivo nell’attitudine. Il tutto in sintonia con le musiche di Apparat.
Antonio Canzoniere