Secondo il rapporto di CPJ, sono 274 i giornalisti imprigionati attualmente nel mondo. Cina, Turchia ed Egitto in testa alla classifica; ma la diffidenza verso gli organi di stampa non risparmia neanche Europa e USA.
Mai così tanti arresti ai danni dei giornalisti come nel 2020: queste le conclusioni dell’ultimo rapporto del Committee to Protect Journalists (CPJ). Sarebbero almeno 274 i giornalisti attualmente imprigionati per aver infastidito, con il proprio lavoro, le autorità politiche: 23 in più rispetto al 2019. Negli ultimi cinque anni, il numero non è mai sceso sotto i 250 casi. Molti altri hanno subito denunce e arresti nel corso dell’anno, ma non rientrano nel conteggio, poiché già rilasciati.
Secondo gli osservatori, la pandemia avrebbe influito negativamente sulla sorte dei giornalisti. Molti di loro sono stati arrestati per aver denunciato la cattiva gestione della crisi sanitaria da parte delle autorità, specialmente in Cina ed Egitto. L’emergenza Covid19 avrebbe inoltre determinato il rinvio di numerosi processi, prolungando la permanenza in carcere dei giornalisti. Alcuni, come Mohamed Monir, in Egitto, o David Romero, in Honduras, sono morti per aver contratto il virus durante la detenzione, a causa della tragica situazione sanitaria in cui versano attualmente molte prigioni.
Sospetta anche la fine di Azimjon Askarov, vincitore nel 2012 dell’International Press Freedom Award, e condannato all’ergastolo dieci anni fa per aver denunciato gli abusi della polizia contro il popolo uzbeko. Secondo le dichiarazioni della moglie, prima di morire Askarov avrebbe manifestato i sintomi tipici del coronavirus; ma le autorità carcerarie si sarebbe rifiutate di sottoporlo al test.
Nel cuore del conflitto: i Paesi più pericolosi per i giornalisti
La Cina, con 47 arresti, si riconferma (per il secondo anno di fila) il Paese con il più alto numero di giornalisti incarcerati. A seguire Turchia (37 prigionieri), Egitto (27) e Arabia Saudita (24). Dati negativi anche per Etiopia e Bielorussia, con un aumento significativo degli arresti in seguito alla recente escalation di conflitti e proteste.
Nell’ultimo anno, il governo cinese non si è limitato ad arrestare i giornalisti “colpevoli” di aver denunciato i soprusi del governo e le repressioni etniche in corso; a essere colpiti sono stati anche i reporter attivi a Wuhan, nel cuore della pandemia. Come Zhang Zhan, fermata dalle autorità in seguito alle sue inchieste sulla condizione dei lavoratori e sulle misure adottate nella gestione della crisi.
Stando ai dati del CPJ, due terzi dei giornalisti imprigionati in tutto il mondo sarebbero accusati di crimini contro lo Stato. Denunciare e ricostruire la verità rappresenta per molti governi un gesto equiparabile al terrorismo. Ma c’è di peggio: nel 19% dei casi, le autorità non si sarebbero neppure preoccupate di divulgare i motivi della reclusione; una pratica diffusa soprattutto in Arabia Saudita ed Eritrea. Nelle rare occasioni in cui i giornalisti ottengono sentenze favorevoli, le autorità producono immediatamente nuove accuse pretestuose, rimandando continuamente la liberazione.
I dati prodotti dagli osservatori sono in costante aggiornamento: in alcuni Paesi gli arresti dei giornalisti sono così bene occultati, da restare ignoti per anni all’opinione pubblica internazionale. Lo stesso vale per la loro morte: è il caso del giornalista siriano Jihad Jamal, il cui decesso, avvenuto in carcere nel 2016, è stato reso noto dalle autorità soltanto quest’anno.
Giornalisti assassinati
CPJ ha già annunciato la pubblicazione di un nuovo rapporto, incentrato questa volta sulle vicende dei giornalisti uccisi nel corso dell’anno. Alcuni episodi recenti sono già tristemente noti. Come l’esecuzione di Ruhollah Zam, avvenuta il 12 dicembre in Iran. Il giornalista dissidente viveva da anni in Francia come rifugiato politico; recatosi in Iraq per motivi professionali, era stato arrestato e trasferito nel Paese nativo. Qui ha trovato la sua condanna: morte per impiccagione.
Non meno tragica la situazione dell’Afghanistan: lo dimostra il caso di Malalai Maiwand, giornalista e attivista per i diritti delle donne, freddata in un attentato lo scorso 10 dicembre. Il suo nome è solo l’ultimo di una lunga lista, in un Paese in cui libertà di espressione e diritti civili sembrano un ricordo sempre più lontano.
Uno sguardo a Occidente
I dati qui raccolti sembrano raccontare di un mondo a noi molto lontano. Eppure gli osservatori parlano chiaro: anche in Occidente, il clima politico che avvolge i giornalisti non è dei migliori. Il fenomeno del trumpismo ha modificato le nostre coordinate mentali rispetto a ciò che è lecito e ciò che è inammissibile, in USA come in Europa. Ci siamo abituati allo spettacolo grottesco di uomini politici che reagiscono a qualsiasi accusa gridando alla “fake new“, senza preoccuparsi si smentire i dati forniti da esperti e membri della stampa. La sempre maggiore acredine che si respira a livello politico avrebbe sdoganato alcuni atteggiamenti nei confronti dei media che fino a poco tempo fa sarebbero stati impensabili.
Negli USA non ci sono al momento giornalisti imprigionati; ma, nel corso dell’anno, vi sono stati circa 110 arresti ai danni degli operatori del settore, una decina dei quali ora in attesa di processo, e 300 casi di aggressione da parte delle forze dell’ordine. Dal 2015 (anno della sua prima candidatura) ad oggi, Donald Trump ha prodotto più di 2.490 tweet contro la stampa. “Fomentare l’idea che i giornalisti siano nemici del popolo significa renderli un bersaglio; quando il Presidente non rispetta la stampa, le autorità locali si sentono incoraggiate a imitarlo”, ha dichiarato la giornalista Marty Steffens.
L’attuale clima di tensione ha eroso le convenzioni tradizionali che tutelavano il lavoro dei membri della stampa dagli attacchi della polizia, ha concluso il CPJ. La Cina è ancora lontana; ma stiamo attenti a cosa ci abituiamo a considerare “normale”.
Elena Brizio