Caro Giorgio Ambrosoli,
Anche se talvolta il tempo oscura la memoria, la gente dalle mie parti si ricorda bene il tuo nome. Tu, nato e vissuto a Milano, amavi i nostri luoghi, quella sponda piemontese del Lago Maggiore dove eri solito recarti in vacanza con la tua famiglia. Per questo la tua tomba si trova qui, a Ghiffa. Per questo ci piace raccontare la tua storia. Mi scuserai, quindi, se mi rivolgo a te con questa confidenza.
Caro Giorgio, la prima volta che ho sentito parlare di te ero solo una ragazzina, spesso superficiale nei miei giudizi politici. Non mi sarei certo aspettata di trovare in te, avvocato di buona famiglia, cattolico e di inclinazione monarchica, il mio eroe.
Un eroe tuo malgrado. Quando, nel ’74, ti nominarono commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, tu accettasti perché quello era il tuo mestiere e il tuo dovere. Certo, non eri all’oscuro dei rischi; lo dimostra quella bellissima lettera che scrivesti a tua moglie Anna Lori:
È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto, perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese.
Qualunque cosa succeda, tu sai cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa.
Perché tu, caro Giorgio, sapevi che il tuo lavoro contrastava con gli interessi di uno degli uomini più influenti della finanza italiana e internazionale.
Michele Sindona era il classico personaggio che si era fatto da sé, grazie al proprio talento negli affari e a una singolare mancanza di scrupoli. Con le sue banche, in Italia come negli Stati Uniti, perseguiva gli interessi di uomini di un certo livello: mafiosi, massoni, contribuenti birichini. E non cessava mai di espandere la propria rete di influenze, come dimostra la sua adesione alla P2, o le ingenti cifre che versava per sostenere diversi partiti del panorama politico italiano, primo tra tutti la Democrazia Cristiana. Tanto che, nel ’74, pochi mesi prima del crack finanziario e dell’inizio delle indagini, Giulio Andreotti arrivò a definirlo “il salvatore della lira”.
Dall’altro lato della barricata, c’eri tu, Giorgio, e un ristrettissimo gruppo di collaboratori appartenenti alla Guardia di Finanza, capitanati dal maresciallo Silvio Novembre. Si lavorava anche di notte, senza sosta. A voi spettava l’arduo compito di smascherare i loschi affari della Banca Privata Italiana: paradisi fiscali, società a scatole cinesi, finanziamenti illeciti ad attività criminose, capitali di facciata a cui non corrispondevano ammonti reali. Pochi uomini contro i poteri occulti della finanza e della politica corrotta, quasi nullo il sostegno delle istituzioni.
Eppure proprio da voi dipendeva la sorte di Sindona.
Se le tue ricerche avessero dimostrato la buona fede del banchiere, lo Stato sarebbe intervenuto per salvare la Banca Privata Italiana, attraverso finanziamenti erogati direttamente dalla Banca d’Italia. Cercarono subito di corromperti, affinché tu appoggiassi questa versione.
Ma le irregolarità che emergevano dalle carte erano evidenti, e testimoniavano un certo modo di fare finanza basato sulla frode e sulla corruzione. Scegliesti di denunciare questi intrighi, condannando la BPI alla liquidazione e Sindona al processo. Nel frattempo anche la Franklin International Bank, altro istituto di credito su cui Sindona aveva allungato gli artigli, era entrata in crisi, innescando un ulteriore procedimento giudiziario in terra americana.
I tuoi avversari passarono allora alle minacce.
Iniziasti a ricevere telefonate anonime, dai toni inizialmente melliflui, ma via via sempre più violenti. Tu registrasti tutto, e quando il tuo interlocutore, misteriosamente, lo venne a sapere, ti lasciò intendere, molto chiaramente, che la tua fine era già stata decisa.
Il 12 luglio del 1979 avresti dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale per confermare le tue conclusioni in merito alla condotta finanziaria di Sindona. La sera dell’11 luglio ti spararono mentre rientravi a casa, uccidendoti. Nessuna autorità pubblica si presentò al tuo funerale.
Il nome del tuo assassino fu scoperto anni più tardi. Si trattava di William Joseph Aricò, un malavitoso statunitense, assoldato a caro prezzo da Sindona, e reclutato grazie alle sue numerose conoscenze negli ambienti di Cosa Nostra.
Sindona fece di tutto per sfuggire al giudizio. Prima inscenò un finto rapimento, con tanto di sparo in una gamba ad opera di un medico di fiducia. Poi, finito nelle mani della giustizia americana, si oppose ai tentativi di estradizione in Italia, dove, oltre alle accuse di bancarotta fraudolenta, avrebbe dovuto sostenere anche quelle per il tuo omicidio.
Dopo anni di tira e molla, nell’86 arrivò la condanna italiana: ergastolo per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.
Due giorni dopo la sentenza, anche Sindona morì, dopo aver ingerito un caffè in cui furono ritrovate ingenti tracce di cianuro. Un avvelenamento avvenuto in circostanze francamente assurde, se si pensa che il banchiere era rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Voghera, dov’era sottoposto a una sorveglianza costante. Così anche il tuo avversario uscì di scena, nella più classica delle tradizioni italiane di quegli anni, per cui, ogni volta che uno scandalo veniva a galla, tutte le persone coinvolte, compresi magari i vecchi alleati, venivano misteriosamente tolte di mezzo. È risaputo infatti che i morti non parlano.
Caro Giorgio, purtroppo alcuni aspetti della tua morte sono per noi ancora oscuri. Non sono mancate accuse a Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio all’epoca dei fatti, che da anni aveva rapporti con Sindona tramite la loggia massonica P2. D’altronde, il buon vecchio Giulio si era persino esposto pubblicamente per salvare la BPI. Una cosa è certa: intervistato nel 2010, l’ormai senatore a vita Andreotti affermò: «Giorgio Ambrosoli era una persona che se le andava cercando».
Caro Giorgio, che nel nostro Paese coloro che fanno il proprio dovere siano considerati poco furbi, non è purtroppo un luogo comune. Ma ti assicuro, e mi scuso per la retorica, che il tuo sacrificio non è stato vano.
Non solo perché ha contribuito, se non a smantellare, almeno a indebolire un certo sistema di gestione del potere (economico e politico): ma perché è stato di esempio a tanti italiani, comprese quelle nuove generazioni di cui anche io faccio parte. Perché quando si parla di un’Italia seria, pulita, coraggiosa, insomma l’Italia dei nostri sogni, si fa sempre il tuo nome.
Io non vorrei chiamarti eroe, Giorgio, perché chi ti ha conosciuto dice che eri una persona molto umile, che rifiutava questo tipo di celebrazioni. E mi rendo conto che in un mondo decente, fare il proprio lavoro secondo coscienza, senza piegarsi ai ricatti del prepotente di turno, non dovrebbe costituire un atto eroico, ma la piena normalità.
Caro Giorgio Ambrosoli, permettimi almeno di dirti grazie. Gli italiani per bene non ti dimenticheranno. “Qualunque cosa succeda”.
Elena Brizio