Cosa si intende con “decrescita felice” e in che modo si correla all’emergenza climatica?
Ce ne parla Gianfranco Di Caro, coordinatore del circolo Movimento per la Decrescita Felice di Verona e delegato dello stesso nel direttivo nazionale.
Chi è Gianfranco Di Caro e da dove nasce il suo impegno per l’ambiente?
Una persona normale, lavoratore autonomo nell’ambito della elaborazione dati contabili che, a un certo punto della vita, percependo un malessere, anche fisico, ha avuto modo di mettere a fuoco una visione diversa.
Nel farlo, mi sono reso conto che l’ambiente non era l’unico aspetto da focalizzare: la realtà non è a compartimenti stagno, e ogni problema, per essere compreso fino in fondo, deve essere messo in relazione al resto.
In pratica, abbiamo bisogno di una visione sistemica, dove tutto è in relazione e vincolato a dei “limiti”, di cui l’attuale paradigma semplicemente nega l’esistenza.
Quindi sono anche, ma non solo, un ambientalista. Non ho scelto espressamente di fare “l’attivista” nel MDF (Movimento per la Decrescita Felice), ma è stato il percorso di cambiamento e di progressivo downshifting che mi ha portato alla presa di coscienza che quello era il modello più equo da seguire. L’attivismo è stato solo un effetto collaterale.
Cosa si intende con “decrescita felice”?
La decrescita felice è la riduzione selettiva e governata delle merci senza valore di uso, inutili e/o dannose a partire dagli sprechi, tanto cari a questo sistema economico-sociale, basato sulla crescita infinita.
Una società che ha tra i suoi pilastri l’iperconsumismo, finalizzato esclusivamente all’aumento del PIL, e non piuttosto a portare il reale benessere e una equità ecologica, è un modello assolutamente incompatibile con le capacità di carico, rigenerazione e metabolizzazione del pianeta vivente. Il seguente filmato è eloquente al riguardo.
Il punto di partenza del MDF è, pertanto, un concetto economico, ma punta subito ad altri aspetti, da quello spirituale all’equità sociale, cercando metodi partecipati per le scelte comuni al fine di sviluppare un percorso vitale compatibile con ciò che lo supporta: la nostra biosfera.
Com’è nata la visione di una decrescita felice?
Tante sono le figure che hanno contribuito nel tempo all’evolversi di numerosi principi di decrescita da noi declinata in “felice”.
Per l’economia, probabilmente è stato Nicholas Georgescu-Roegen, estensore della teoria della bioeconomia. Altra figura è quella di Kenneth Ewart Boulding. Sua è la famosa frase: «Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista».
Il primo, però, a sviluppare e riassumere la teoria nella definizione di “decrescita felice” è stato Maurizio Pallante, con il suo libro omonimo del 2005. Ambientalista, saggista, esperto di politiche energetiche e per la riduzione dei consumi, nel 2007 ha fondato, su spinta di molti cittadini, il Movimento per la Decrescita Felice, forse unica realtà mondiale non prettamente accademica, ma indirizzata anche all’applicazione pratica. Oggi con i suoi circoli territoriali porta alle persone non solo la visione di una rivoluzione culturale, ma una fattiva applicazione negli stili di vita quotidiani.
In che modo la politica potrebbe agevolare un processo di decrescita felice?
Bella domanda. Cambiando innanzitutto il cervello, probabilmente. Mi rendo conto che modificare uno schema intellettuale e culturale radicato sulla crescita illimitata del PIL non è facile. Tuttavia non sarebbe certamente impossibile, se non fosse oltremodo scomodo, elettoralmente parlando. Intraprendere misure atte a ridurre gli sprechi e i consumi energetici, avviare una reale transizione energetica, condividere le scelte con strumenti partecipati dal basso, promuovere un concetto di reale benessere, potrebbe essere un inizio.
Ma questo comporta un passaggio fondamentale: dire la verità.
Dire cioè che il modello attuale è in via di chiusura per fallimento; che conseguenze come i cambiamenti climatici peseranno gravemente sulle generazioni future (se ne avremo, di questo passo); che la sbornia energetica (fossile) che ci siamo presi noi dei Paesi più privilegiati del primo mondo negli ultimi 60/70 anni, non è più percorribile.
Cosa comporterebbe una decrescita felice rispetto agli stili di vita attuali?
Personalmente ritengo si debba effettuare un passaggio sia individuale (anche spirituale), sia come collettività: inserire il criterio di “sufficienza” nelle nostre vite, fatto di scelte consapevoli che soddisfino la domanda di cosa serve realmente per vivere. Scelte fatte tenendo presenti non solo i bisogni egoistici individuali, ma anche quelli degli altri esseri umani e viventi, di chi verrà dopo di noi e dei limiti fisiologici del pianeta.
Parecchie rinunce, che forse non tutti apprezzerebbero…
Un percorso non di rinuncia, ma di liberazione nel senso più bello e ampio della parola. Quando cominci a seguire questi processi è come avviare una sorta di disintossicazione dai condizionamenti a cui siamo sottoposti. Dona un grande senso di libertà, perché puoi fare una cosa: scegliere, scientemente e consapevolmente.
Ma dà anche un carico di responsabilità, che fa vivere più profondamente alcune contraddizioni del fare quotidiano. Domandarsi quando acquisto qualcosa: «Mi serve veramente?», è un buon inizio.
Perché, nonostante tutti i vantaggi che comporterebbe una decrescita felice, se ne parla così poco?
Al contrario, di decrescita se ne parla anche troppo ma… a vanvera.
Anche in questi giorni di Covid 19, le conseguenze che subiamo vengono sempre presentate, in senso negativo, come aspetti della decrescita. La crisi che stiamo vivendo però è recessione, generalizzata e caotica, frutto di un sistema economico-sociale globalizzato, dipendente dal denaro e indirizzato alla competitività capitalistica e neoliberista, dove trionfa l’individualismo. Emerge così l’inadeguatezza del modello che è causa e non soluzione.
L’emergenza Coronavirus può insegnarci qualcosa?
Spero che da questa prova le persone possano trarre la necessaria consapevolezza e la piena presa di coscienza.
Ci hanno convinto che una “Spagnola” (che fece milioni di morti) non fosse replicabile ai nostri tempi, così progrediti. Ma in pochi giorni siamo passati dalla modalità “va tutto bene” a quella di “panico”, per un virus che, tutto sommato, nonostante le sofferenze fisiche e il dolore delle perdite, non riuscirebbe certamente a minacciare la sopravvivenza della specie. Le sue modalità di espansione hanno però pesantemente e gravemente infiltrato il sistema, mettendolo in crisi.
Visti questi presupposti, non so sinceramente come faremo ad affrontare possibili eventi ben più pesanti, come quelli che arriveranno dal cambiamento climatico.
Solo ora le istituzioni si appellano a quei principi di solidarietà indispensabili per affrontare l’emergenza e le difficoltà della comunità, che sono bagaglio da sempre della decrescita felice.
In generale, i movimenti ambientalisti hanno un’adeguata consapevolezza del nucleo del problema?
No.
Personalmente ritengo, per esperienza di rapporti, che sia proprio mancata negli anni la visione sistemica. In qualche modo, i movimenti storici hanno contribuito a esternalizzare il concetto di natura, separandolo dal vivere quotidiano. Ambiente è dove viviamo tutti, ogni giorno. Non aver considerato, se non in modo limitato, tutte le relazioni e le relative implicazioni, ma tenendo isolato l’aspetto ambientale da quello economico e sociale, ha confinato l’azione in uno spazio definito, forse anche percepito, come elitario.
Quindi nulla sta cambiando?
In realtà si sta assistendo a qualche cambiamento di rotta. Soprattutto grazie a movimenti come Fridays For Future ed Extinction Rebellion, che stanno portando avanti una rinnovata azione di sensibilizzazione nella società. E forse anche grazie a certe prese di posizione, come il rapporto di oltre 11.000 scienziati su BioScience in merito al cambiamento climatico. Rapporto che chiede espressamente ai governi di abbandonare l’obbiettivo della crescita del PIL, riconosciuto quale fattore scatenante dell’emergenza climatica.
Come mai i movimenti ambientalisti non riescono a farsi ascoltare?
Essere inascoltati dai più è una cosa che condividiamo. Senz’altro l’avere tanto, sotto il profilo materiale immediato e tangibile, facilita il condizionamento delle persone. Al contrario, il messaggio di un possibile mondo migliore, più salubre e sereno, è forse più aleatorio, quasi una questione di fede: è più efficacie il semplice messaggio di consumare una pasticca per migliorare un sintomo, che adottare uno stile di vita diverso che prevenga la malattia. Poi, si sa, i farmaci aumentano il PIL.
La decrescita felice potrebbe risolvere il problema dell’emergenza climatica, o è utopico pensarlo, visti i tempi limitati per riuscirci?
Il cambiamento climatico è un processo irreversibile, come spiega la scienza.
Non si torna indietro.
Il clima è un sistema dinamico e inerziale. Quello che poi abbiamo accumulato nell’atmosfera continuerà a produrre effetti per molto tempo.
La speranza è provare a limitare le conseguenze per la vita, contenendo la crescita media delle temperature. Dovevamo però iniziare diversi decenni fa, perché le dinamiche rimanessero nell’ambito di modifiche a cui potevamo adeguarci. L’accelerazione caotica che siamo riusciti a imprimere, per una dissipazione dissennata di energia, penso sarà duro frenarla.
Mi sembra di capire che ci siano poche speranze…
Per decelerare l’unica strada è uscire dal paradigma di una crescita illimitata ed esponenziale, che ha sempre effetti devastanti, come stiamo purtroppo vedendo anche in questi giorni. Quindi dobbiamo decelerare urgentemente, poiché più tempo lasciamo passare, più tali effetti saranno repentini e violenti.
La decrescita, come da noi formulata, non rappresenta la soluzione, ma l’unica via percorribile. Le garanzie non esistono. Per nessuno.
Che sia decrescita “felice”, nel senso di scegliere noi di governarla o “catastrofica” nel senso che saranno solo gli eventi a gestirla, sarà conseguenza del nostro libero arbitrio.
Claudia Maschio