Il romanzo I delitti di via Margutta (Chiarelettere, 2020) trasporta il lettore in una Roma chiaroscurale, estremamente difficile da vedere. Perché, il suo autore Giancarlo Capaldo – ex responsabile della DDA capitolina e oggi procuratore aggiunto della Repubblica – lo sa bene, è nascosta in piena vista. Tra le vestigia delle epoche passate ammirate dai turisti e il glamour degli eventi della moda e della cultura, infatti, vive una città diversa. Forse la più eterna di tutte, a ben pensarci. Quella in cui gioie violente si consumano in una violenta fine; quella in cui gli intrighi del Potere dentro a segrete stanze possono ogni cosa. Perfino deformare, piegare, cesellare a proprio uso e consumo il concetto stesso di verità. Le domande che animano il suo protagonista, pertanto, sono in parte quelle di ognuno di noi: opporsi si può? E come? E perché?
Gian Maria Ildebrando Del Monte Tarquinia, protagonista del romanzo di Giancarlo Capaldo, non è personaggio per il quale sia semplice provare simpatia. Nobile – il suo casato risalirebbe addirittura al basso medioevo – e oltraggiosamente ricco, conduce pigramente un’esistenza dorata. La cultura, la passione per i misteri e la cronaca nera, la filosofia per lui sono un diletto. Non è un’esistenza peggiore di altre, né più dannosa, questo no; ma nemmeno suscita nel lettore un mistico afflato, sulle prime. I suoi giorni, condivisi con la bellissima moglie Gloria, di estrazione borghese – come esige il cliché dell’aristocratico anticonformista – e il fido maggiordomo Oliver, sembrano insignificanti. “Cos’ha mai da spartire con me”, si chiede il lettore tra l’irritazione e l’invidia per una vita davvero troppo facile, “un simile individuo?”. Ma ecco che, quando si sta per posare il libro con uno sbuffo, accade che l’insipido nobile acquista spessore.
« “Perché? Perché? Perché?” […] Perché la menzogna si traveste spesso da verità? Perché c’è la morte? Perché il bene è sopraffatto dal male? Perché esiste Dio? Perché non esiste?» si chiede Gian Maria in un flashback, riflettendo su una tragedia familiare che ha appena colpito la futura moglie.
Giancarlo Capaldo compie con sottile mestiere il gioco di prestigio che ci fa immedesimare con il protagonista. Le domande di Gian Maria, scopriamo, sono le stesse che, in una disgrazia o in certe notti insonni, arrivano a presentarci il conto. Sono quasi banali, infantili, eppure risultano un’istantanea efficacissima di come ci sentiamo, di ciò a cui tendiamo a pensare quando la vita colpisce più duro. Per questo, quando la sua amica Luvi – nobildonna dal passato oscuro – viene barbaramente assassinata durante un vernissage, ormai siamo disposti ad accompagnarlo nelle sue indagini. Siamo disposti a tifare per questo nobile accidioso. Nonché per la sua moglie, tanto bella quanto sagace. E pure per il maggiordomo che, per aplomb e intuizioni, somiglia ai personaggi di Conan Doyle. Chiudendo un occhio sul fatto che, visti i mezzi e gli aiuti a disposizione di questo bizzarro terzetto investigativo, risolvere il mistero sia vergognosamente semplice.
In Romeo e Giulietta, William Shakespeare scrisse: «Le gioie violente hanno violenta fine». Ciò risulta altrettanto vero nel romanzo di Giancarlo Capaldo, essendo la chiave risolutiva del mistero dell’assassinio.
Si tratta di una considerazione tutt’altro che sottile o strabiliante: è ai limiti della morale di una favola – ancorché favola nera. E in effetti non è questo l’aspetto più interessante del romanzo, bensì come ci si arriva. Gian Maria, infatti, deve decifrare i sussurri obliqui di un’eminenza grigia del Vaticano, che sa più di quanto possa (e voglia) rivelare. E, insieme ai suoi aiutanti, destreggiarsi nella guerra intestina tra la Procura e il capo della polizia, evitando l’incidente diplomatico sempre dietro l’angolo. Ma il corpo a corpo più pericoloso ingaggiato dal nostro nobile è quello con la verità. Il problema non è solo trovare la verità. È scoprire quale sia tra le tante verità rese possibili, come in un gioco degli specchi, da molteplici interessi. E poi, riuscire ad accettarla. Come scrive Capaldo,
raggiungere la verità non è veramente ciò che l’uomo desidera. Sono più le volte che la verità sconvolge, turba, o quantomeno infastidisce, rispetto a quelle in cui consente all’anima di trovare la pace nella luce. La luce è sempre troppa […]: illumina qualcosa che non vogliamo vedere.
La posta in gioco, per il protagonista come per il lettore, è più alta di quanto potrebbe sembrare a un primo sguardo.
Come constatano il protagonista e la sua compagna, infatti,
i mondi più patinati […] celano gli stessi istinti e gli stessi meccanismi che guidano, dall’eternità, la storia umana. Esserne consapevoli significa vivere la fine di un’illusione e comprendere una verità elementare. Ciascuno è soltanto, tutt’al più, una scheggia di cronaca, non un capitolo di storia. Ciascuno è destinato a durare soltanto un attimo nella memoria collettiva e il racconto della sua vita sarà sempre troppo sommario e, comunque, parzialmente falso. Perché frutto di manipolazioni più o meno consapevoli.
Opporsi all’insabbiamento del caso dell’amica uccisa, opporsi al ritorno alla routine in una Roma dorata, cercare la verità significa tentare di costruire un’alternativa a questo. Anche se (o proprio perché) «l’unica ragione della vita è la vita stessa». Anche se (o proprio perché) non si è mai completamente certi che lo si stia facendo per qualcun altro e non soltanto per sé stessi.
Valeria Meazza