Giacomo Leopardi non ha bisogno di grandi presentazioni. La sua penna parla per lui. Un’anima complessa, che esplode e brucia per qualche istante, illuminando ogni cosa e venendo fraintesa per qualcos’altro.
La luce di Leopardi fu scambiata a lungo per qualcosa di ben lontano da una stella. Già in vita, Leopardi fu protagonista di scherno e vezzeggiativi tutt’altro che gloriosi. Era un uomo triste, che pretendeva che la sua infelicità potesse essere definita universale, attaccata come un’ombra alla vita di tutti gli uomini. Un’incomprensione, quella che visse Leopardi, che in parte continua anche oggi.
Indubbiamente, Leopardi fu un uomo complesso. Il suo pensiero non è di facile comprensione e lo si può amare solo comprendendolo. Parlarne, richiederebbe molte parole e ricerche, ma in questo articolo, si tenterà di evidenziare un aspetto all’apparenza comune, ma tutt’altro che scontato: Leopardi non odiava la vita, Leopardi, quella vita, l’amava profondamente. Attenzione, operò: non era una vita ristretta, quella che desiderava. Ciò a cui egli aspirava, su cui fantasticava, era una vita autentica, una vita che avesse l’ardore di definirsi tale.
Il pensiero, come la stessa poesia di Leopardi, è intrinsecamente filosofico. Leopardi non smette mai di cercare risposte, di porsi domande, di trovare un senso all’esistenza, tracciando le proprie teorie, cambiando il proprio pensiero e modificandosi spiritualmente. I suoi stessi componimenti saranno lo specchio delle fasi della sua vita, collocabili in determinati blocchi e momenti. Leopardi non è mai uguale a sé stesso: discute, riflette, cerca la vita, la perde, s’innamora e poi chiede al suo cuore di arrendersi. Eppure, tra le tante sfaccettature che furono di Giacomo Leopardi, diffusa è proprio quella dell’uomo triste, depresso, privo di speranza. Un’immagine errata, che non rende giustizia alla complessità e alla profondità che lo contraddistinse.
Nella vita, cos’è l’infelicità e cos’è il piacere?
Non è errato sostenere che Leopardi si soffermò molto sul concetto d’infelicità. Effettivamente, egli dedicò molte delle sue riflessioni all’infelicità, ma anche a cosa fosse il piacere. Inizialmente, per lui l’infelicità c’era, era presente, inevitabilmente, nella vita dell’uomo ed era causata proprio dall’uomo stesso. Ma c’era un modo strategico per aggirarla: illudersi che non ci fosse. La natura, che nel principio non aveva una natura malevola, lo proteggeva, facendogli credere che esistesse per lui un futuro migliore, la speranza che, nel domani più prossimo, sarebbe andato tutto bene. A squarciare quell’illusione, a suo discapito, sarà proprio l’uomo: attraverso l’uso della ragione, l’illusione svaniva, lasciando spazio alla verità.
In seguito, il pensiero leopardiano muterà forma. L’infelicità sarà imputata alla natura, matrigna crudele, non intenzionata a risparmiare neanche i suoi figli. La natura metteva al mondo le proprie creature, destinandole ad un’infelicità inevitabile. In questo, però, non vi è alcun elemento patetico. La forza di Leopardi sta proprio nel non risparmiarsi mai. Il suo atteggiamento è fiero, la sua forza sta nella consapevolezza. Non è un caso che si esporrà senza riserve, pur sostenendo un pensiero fortemente in contrasto con il modo di pensare del tempo in cui crebbe.
E il piacere? L’uomo, per Leopardi, aspirava al piacere per tutta la vita. Lo rincorreva, senza mai riuscire ad afferrarlo a piene mani. Il piacere sapeva essere infinito, sempre più grande rispetto a quello che l’uomo, alla fine, riusciva a rubare. Tuttavia, prima che la natura assumesse l’aspetto di una matrigna crudele, tra le illusioni in grado di portare sollievo, vi era l’arte.
La poesia, per Leopardi, sollecitava l’immaginazione, accresceva il piacere di quell’illusione benevola. L’arte era in grado di suscitare emozioni forti, stimolando i sensi di chi componeva, ma soprattutto di chi si apprestava a goderne la vaghezza. L’immaginazione aveva l’aspetto di un bisogno antropologico, a cui l’uomo, nonostante i progressi, non riusciva a rinunciare. La poesia aveva la capacità di compensare l’insoddisfazione, la delusione di non riuscire a raggiungere il piacere sognato. L’immaginazione, infondo, sapeva essere infinita, vaga, indeterminata, esattamente come sapeva esserlo il desiderio del piacere.
Il desiderio più grande di Leopardi: avere una vita tutta per sé
Chiarito, brevemente, cosa fossero per Leopardi l’infelicità e il piacere, possiamo parlare del suo, probabile, più grande desiderio: quello di vivere.
Giacomo Leopardi fu tormentato da un desiderio a lui negato. Questo, però, non significa che non tentò di afferrarlo. Sarebbe sbagliato pensare a Leopardi come ad un ragazzo arrendevole. Fu un prodigio, in grado di studiare, autonomamente, testi complessi. Ma cercò anche di ribellarsi. Da ragazzo, infatti, tentò di fuggire da Recanati, un luogo vissuto sempre più come una prigione.
Quello che era stato il regno dei suoi studi, divenne una gabbia d’oro, non più una casa. Si potrebbe dire che quella di Leopardi fu una reclusione quasi forzata; gli anelli di quella catena furono costruiti, uno ad uno, dal padre Monaldo, che impartì al figlio una rigida educazione e poi dalla malattia, che non abbandonerà mai il poeta. Profondamente diversi, padre e figlio si scontreranno tutta la vita, uno fortemente cattolico, l’altro fieramente ateo. E l’atteggiamento di Giacomo Leopardi non sarà di certo remissivo, anzi: combatterà l’egemonia paterna a muso duro.
Fuori da Recanati, Leopardi tenterà di afferrare il suo desiderio senza, tuttavia, riuscirci. Non era di aspetto piacente, non godeva d’amore e lussuria ed ebbe non pochi scontri con gli intellettuali del suo tempo. Esperienze che lo delusero a fondo. Il mondo fuori da Recanati non gli restituì la bellezza che prometteva. Lungi dal mostrare l’ingordigia di cui doveva essere capace, la sua vita lo limitava, mettendolo all’angolo. E per Leopardi la vita non era rinuncia, altrimenti valeva morire, come scriverà lui stesso all’interno de “Dialogo di un fisico o di un metafisico”, presente nelle Operette Morali:
Ma infine, la vita dev’essere viva, cioè vera vita: o la morte la supera incomparabilmente di pregio.
La malinconia di cui si farà scudo Leopardi, deriverà proprio da questo. Il mondo che lui tanto desiderava guardare, non gli restituirà la stessa gentilezza di sguardo. Eppure, nonostante questo, non rinuncerà alla bellezza, alla forza, tutt’altro che succube del rifiuto. Non a caso, negli ultimi anni, ormai cieco, darà vita a La Ginestra.
Leopardi, quindi, non fu affatto il succube depresso che rifiutava la vita. L’ammirava, la desiderava e cercò in ogni modo di entrare a farne parte, già chiuso a Recanati, quando l’infinito, la vita, il mondo, per lui, avevano l’aspetto di una piccola finestra, affacciata su di un colle che, sfacciatamente, limitava il suo sguardo.