Nel 2017 il manga di Masamune Shirow (1961) è stato di nuovo trasposto sul grande schermo ma stavolta senza una produzione nipponica. Ghost in the shell è uno dei casi più importanti e fortunati di franchise giapponese, che ha toccato trasversalmente il genere del manga, dell’anime con ben tre film e tre serie tv derivate, arrivando fino ai videogiochi.
Tutto ruota attorno a Motoko, programmata come un’arma da impiegare all’interno di una squadra di soccorso internazionale. Il suo mondo è un capolavoro futuristico dove la materia organica è costantemente integrata con parti robotiche e l’identità umana, in promiscuità costante con la tecnologia, sembra sempre sbiadirsi.
Soggetto complesso, soprattutto quando la protagonista punta a ritrovare il suo passato a lungo nascosto che riemerge a causa del “fantasma”, contenuto nel suo involucro di metallo.
A cimentarsi in un soggetto simile ha provato Rupert Sanders (1971) reduce da una lunga esperienza pubblicitaria e dal film Biancaneve e il cacciatore con Kristen Stewart. Viene scelta Scarlett Johansson come protagonista, attorniata da Juliette Binoche nel ruolo del dottor Ouelet, Takeshi Kitano come inteprete del capo della squadra di soccorso Aramaki e per il ruolo del sanguigno e fedele aiutante Batou si sceglie Pilou Asbaek. Michael Pitt entra nel cast per il ruolo dell’antagonista Kuze.
Condensare in un film un soggetto che coniuga azione con filosofia, morale e bioetica non è certamente facile. Sanders però guarda più all’estetica di Blade Runner e al videoclip che non alla complessità del manga originale.
Nella sequenza iniziale in cui viene creata Motoko (detta il Maggiore per bravura e status a livello operativo) la colonna sonora di Clint Masell punta a citare i cori che aprivano l’anime del 1995, il primo ispirato al materiale di Shirow. Per il resto, Masell sfodera un sound techno, indicando che l’approccio del film non ricercherà le note alte dei contraltari giapponesi.
La sceneggiatura di cui Sanders si serve non aiuta: le problematiche di Ghost in the shell vengono condensate in battute enfatiche, un percorso del personaggio che punta troppo ad una drammaturgia occidentale, non aperta alle implicazioni dell’originale. Si punta al thriller cibernetico, dove perfino le possibilità evocative della fotografia vengono messe in sordina, appiattite con campi medi ed un’illuminazione che non brilla per complessità o composizione cromatica.
Nessuno si sarebbe aspettato dal film un tono espressionista, sia chiaro: ma sembra che qui la piattezza si sia unita con l’intento di citare il cult di Ridley Scott. Il film ha subito accuse di whitewashing a causa dell’etnia non asiatica della Johansson ma si può dire che gli accusatori, per quanto pedanti e peraltro non giapponesi, abbiano ragione se si considera lo stile, l’approccio e l’obiettivo dietro al film. Qui c’è molta Hollywood e poco Sol Levante.
Il film, visibile su Netflix, conta più per le scenografie di Jan Roels che per la regia di Sanders, colpevole d’aver stirato, appiattito i risvolti del soggetto che in altre mani avrebbero brillato.
Antonio Canzoniere