Gershom Scholem nacque a Berlino nel 1897. Studiò filosofia, semitistica e matematica in Germania. Nel 1923, si trasferì a Gerusalemme e fu docente universitario dal 1925. Fu presidente dell’Accademia delle Scienze d’Israele; morì nel 1982. Parte dei suoi studi sono confluiti in ne La Kabbalah e il suo simbolismo (Torino 2001, Einaudi): traduzione italiana di Zur Kabbala und ihrer Symbolik (1960, Rhein-Verlag, Zürich).
La quarta di copertina dell’edizione Einaudi riporta un giudizio di Walter Benjamin sui primi lavori di Scholem: la loro dote principale sarebbe «la profonda umanità che si esprime nel proposito, realizzato con successo, di avvicinare nel modo più utile e al tempo stesso più sorprendente all’intelletto non iniziato, armato solo della sua attenzione, un testo come questo».
La Kabbalah, o Qabbalah, è il complesso delle dottrine mistiche ed esoteriche ebraiche. Il termine deriva dalla radice קבל (qbl), che veicola l’idea di “ricezione”. “Kabbalah”, perciò, è quanto è stato “ricevuto”, per via di trasmissione generazionale, in una cerchia d’iniziati.
Il testo di Scholem che stiamo esaminando comincia trattando il rapporto fra misticismo ed autorità religiosa. L’autore definisce il mistico come
“colui a cui è stata donata o concessa un’esperienza diretta del divino, dell’ultima realtà, che egli sente come reale, o che perlomeno cerca coscientemente di raggiungerla. Tale esperienza può giungergli attraverso un’improvvisa illuminazione, o invece essere il risultato finale di preparativi lunghi e forse minuziosi, coi quali ha cercato di raggiungere o realizzare tale contatto col divino.” (La Kabbalah…, p. 8).
Dal punto di vista storico, ciò avviene all’interno di una determinata tradizione, con i suoi insegnamenti e i suoi dogmi. Il mistico (sempre per usare termini di Scholem) si trova dunque a “mettere vino nuovo in otri vecchi”. Può farlo confermando la validità della dottrina cui aderisce o scontrandosi con le autorità religiose, in nome della propria autonomia spirituale.
Che rapporto c’è, dunque, fra Kabbalah e Torah, la “Legge” per eccellenza?
“…in realtà il mistico lavora in larga misura in modo inconscio, e forse lo scontro del vecchio e del nuovo che lo storico mette in rilievo con tanto zelo non gli è affatto chiaro. Come seguace della propria tradizione religiosa se ne lascia anche interamente permeare, e molte cose che al lettore moderno appaiono come fantasiose deformazioni del testo per lui sono congiunte nel modo più naturale con la propria concezione della natura dei testi sacri.” (pp. 44-45)
Né intellettualismo, né rifiuto della Legge, dunque; ma interpretazione viva, basata sull’effettiva esperienza interiore.
Dopo il rapporto con la Torah, quello col mito. La ricerca abramitica della “purezza del concetto di Dio” portò l’Ebraismo (e non solo) a rischiare lo svuotamento del suddetto concetto. La potenza delle immagini mitologiche poteva servire a rendere la divinità vitale e potente sulla psiche umana. Ecco che il complesso di posizioni riassunte come “Kabbalah” si trovano a rimitizzare la Torah, traducendone in contenuti in figure e simboli.
La più celebre di queste immagini è “l’albero delle dieci sefiroth”: dieci cifre archetipe, ovvero le forze fondamentali di tutto l’essere. Esse, nel proprio complesso, costituiscono una sorta di “struttura interna di Dio”, che si manifesta nella creazione.
La Kabbalah è dunque “tradizione”; ma la pluralità delle voci che la compongono e la complessità dei suoi contenuti le conferisce anche una spinta al rinnovamento. Un cabalista può essere in odore di “eresia”, pur avendo un atteggiamento assolutamente conservatore nei confronti della dottrina esoterica che gli è stata trasmessa. Questa tensione è indicata da Scholem come tipica della storia del misticismo.
L’ultimo capitolo è dedicato a una figura ben nota: il Golem. Esso dà il titolo a un romanzo di Gustav Meyrink (1915), oltre che a un film girato da Paul Wegener, Carl Boese e Henrik Galeen (1920). È una figura d’argilla, animata da un’apposita parola. Materializzazione dell’anima collettiva del ghetto, ricorda anche il racconto della creazione di Adamo. “Golem”, in ebraico, significa “materia informe, embrione”. Ciò che lo rende umano è il soffio divino, che si esprime verbalmente. Come a dire: “In principio fu il Logos”, la Parola consapevole, il Pensiero che dà un senso al mondo materiale.
Erica Gazzoldi