La Germania torna a lanciare segnali d’allarme per l’economia europea.
Uscita dalla recessione nel primo trimestre grazie al consumo interno e al settore edilizio, nel secondo trimestre il Pil ha registrato una flessione dell’0,1%. Le stime di crescita per il 2019 si attestano così allo 0,5%, secondo i calcoli del governo tedesco. La potente locomotiva industriale, fiore all’occhiello dell’economia europea, sembra stentare rispetto all’andatura solida e sostenuta cui siamo stati abituati negli ultimi anni. Proprio alla debolezza della Germania bisogna attribuire le dichiarazioni del governatore della banca centrale finlandese. Olli Rehn ha annunciato nuovi tagli ai tassi d’interesse e acquisti da parte della Bce che verranno discussi nella riunione del 12 settembre, inaugurando il rilancio di una politica monetaria accomodante, in un contesto in cui i tassi di interesse sono già sotto zero, al –0,40%.
L’immissione di nuova liquidità da parte della banca centrale difficilmente riuscirà a fornire le basi per una nuova partenza dell’economia europea e soprattutto della Germania. Infatti, nonostante il bilancio da primi della classe e una bilancia commerciale ancora invidiabile, gli investimenti industriali del paese mitteleuropeo sono stagnanti. E a pesare su questa attitudine prudenziale è proprio l’instabilità globale e l’incertezza economica. La Germania è avviluppata nella morsa del progressivo avvitarsi del commercio mondiale, tanto più rilevante in quanto le esportazioni rappresentano il 47,1% dell’economia tedesca. E proprio il calo delle esportazioni è la causa della sofferenza industriale della prima economia europea.
A giugno 2019, la produzione industriale tedesca è crollata rispetto al mese precedente dell’1,8%, poco più della zona euro che perde invece l’1,6%, secondo i dati destagionalizzati. Su base annuale abbiamo a che fare con un bel capitombolo: da giugno 2018 la produzione industriale della Germania è crollata del 6,2%. La sofferenza dell’industria tedesca è d’altra parte abbastanza frontale. Mentre i grandi gruppi industriali tremano per i propri profitti, si prospetta un’ondata di licenziamenti che manderà a casa 85.000 salariati, in un massiccio processo di ristrutturazione produttiva.
E l’industria non è l’unica a annusare guai. La Deutsche Bank, saltata l’ipotesi della megafusione taglia-costi con Commerzbank, ha annunciato 18.000 esuberi, riducendo quasi un quarto del proprio organico, mentre si disimpegna dai settori più rischiosi di investimento. La più grande banca tedesca ha infatti registrato nel secondo trimestre una perdita di 3,15 miliardi di euro, la maggior parte dei quali proprio dal settore investment. Un taglio speculare avverrà anche negli uffici della Commerzbank, che licenzierà 5.300 colletti bianchi entro il 2020. D’altronde, le asperità nella lunga marcia verso le magnifiche sorti e progressive stanno provocando non poca demoralizzazione tra gli investitori, che versano in uno stato di sfiducia pre-depressiva.
L’indice che traccia la fiducia degli investitori tedeschi, l’indice Zew, è caduto a -44,1 a agosto, da -24,5 a luglio. Un crollo analogo si è registrato nell’indice della fiducia che riguarda l’intera eurozona, scivolato a -43,6. Un altro sintomo del terreno sdrucciolevole su cui si muove l’economia tedesca è l’andamento della curva dei rendimenti dei titoli di stato della Germania. La curva tra i rendimenti a breve termine e quelli a medio termine si è invertita, mentre è piatta quella tra i rendimenti a breve termine e quelli a lungo termine. Questo risultato segnala una forte sfiducia nelle prospettive economiche della Germania, ed è spesso indice di un clima recessivo.
Una più grave inversione della curva dei rendimenti dei titoli di stato americani sta infatti sollevando notevoli preoccupazioni sulle condizioni dell’economia globale. D’altra parte, gli ultimi dati della crescita Pil tedesco arrivano in un inizio settimana abbastanza nero per i mercati. Perdite consistenti hanno contrassegnato l’andamento del mercato azionario lunedì e mercoledì nella borsa di Wall Street, nelle borse asiatiche e in quelle europee, mentre in Australia miliardi di dollari sono andati in fumo in una sola giornata. Mentre il prezzo del petrolio cade, accendendo una spia inquietante per l’industria globale, l’oro si apprezza in quanto bene di rifugio.
L’inasprirsi della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, il rallentamento della Cina, la spada di Damocle della Brexit, la crisi industriale (anche in settori chiave come quello dell’automotive) pongono condizioni molto aspre per la crescita economica della Germania, e di conseguenza per l’intera eurozona. A essere in pericolo è soprattutto l’Italia. Nel 2018, l’export verso la Germania ammontava a 58,2 miliardi, circa il 12,5% del totale delle esportazioni italiane. Inoltre, il legame tra i due paesi diventa ogni anno più stretto. L’interscambio nel settore meccanico tra Italia e Germania è cresciuto dal 2013 del 40%, una cifra che parla chiaro sull’interconnessione delle due economie. La contrazione del commercio globale costringe i paesi europei a vincolarsi l’uno all’altro in un destino comune. Tale destino, però, potrebbe essere meno idilliaco di quanto si pensi.
Francesco Salmeri