L’11 ottobre scorso Israele e Libano hanno raggiunto uno storico accordo. Esso andrebbe a regolare la disputa sullo sfruttamento dei giacimenti di gas offshore al largo delle loro coste. Sebbene, a ragione, si tratti di un ambito limitato rispetto al quadro delle relazioni diplomatiche fra stati, la stampa internazionale giudica in termini altisonanti l’accordo in quanto i due attori sono attualmente in stato di guerra.
La storia recente dei due paesi parla chiaro. L’esercito israeliano ha invaso ben tre volte il paese dei cedri (1978, 1982 e 2006), occupandolo per diciotto anni (1982-2000). Qua l’esercito si macchiò di crimini efferati, come il bombardamento della città di Beirut o la connivenza nei massacri dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila. Da parte sua il Libano ha ospitato per dodici anni (1970-82) la sede centrale dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) che portava avanti incursioni armate nella regione più settentrionale di Israele, la Galilea. Inoltre, l’attore politico attualmente più potente del Libano è il partito-milizia di Hezbollah, finanziato dall’Iran, ferocemente antisionista, e acerrimo nemico di Israele.
Dichiarazioni a caldo
Il primo ministro israeliano Yair Lapid ha definito l’accordo come: “un risultato storico che rafforzerà la sicurezza di Israele, inietterà miliardi nella nostra economia e assicurerà la stabilità del nostro confine settentrionale”.
Da parte sua il ministro libanese dell’energia Walid Fayyad, dopo aver dichiarato che l’accordo ha soddisfatto le richieste del governo, ha concluso dicendo che: “i primi studi dimostrano che nei giacimenti sono presenti decine di miliardi di metri cubi di gas, sufficienti a rifornire di energia elettrica il Libano per vent’anni”.
Il ministro Fayyad non ha parlato a sproposito. L’accordo potrebbe infatti sbloccare la terribile situazione economica in versa il paese. Nel 2019 il Libano è precipitato in una fase di default quando il governo dichiarò di non essere in grado di saldare la tranche di un prestito della BCE di 30 miliardi di dollari. Da quel momento il PIL è crollato di oltre il 30%, trascinando in caduta libera il valore della moneta nazionale (-90%), e conducendo ben l’82% della popolazione allo stato di povertà.
L’utilizzo per uso domestico del gas e i profitti per la sua esportazione sarebbero una “manna dal cielo” per far uscire l’economia libanese dal circolo vizioso in cui si trova, e senza richiedere ulteriori prestiti dall’estero.
I termini dell’accordo
L’accordo deve essere ancora firmato ma alcune notizie sui dettagli sono trapelate.
Quali sono i potenziali termini dell’accordo? Cosa potrebbero ottenere le parti?
Le richieste libanesi che saranno formalizzate nell’accordo sono tre.
a) Confermare alla “Linea 23” (la carta è visibile qui) l’estensione della zona economica esclusiva (ZEE) libanese; rettificando in modo definitivo quel confine marittimo (“linea 1”) disegnato al momento del ritiro dell’esercito israeliano nel 2000.
b) Rivendica il “pieno diritto” allo sfruttamento del giacimento di gas di Qana, che si prolunga nella ZEE israeliana.
c) Il governo libanese incaricherà il gigante del petrolio francese “Total Energies” dell’estrazione del gas dai suoi giacimenti.
Dall’altra parte lo stato ebraico avrebbe ottenuto:
a) Il totale sfruttamento del giacimento offshore di Karish.
b) Il pagamento di un indennizzo da parte di Total per il mancato sfruttamento del giacimento di Qana.
L’opera di mediazione
L’accordo è stato raggiunto dopo anni di colloqui informali fra i due paesi e grazie all’opera di mediazione di un membro di primo piano dell’amministrazione Biden, il senior advisor per la sicurezza energetica Amos Hochstein. Gli Stati Uniti lavoravano da tempo all’accordo in quanto consapevoli che la messa in produzione di giacimenti così ricchi, viste le potenziali rendite, potrebbero condurre a una maggiore stabilità politica della zona.
Negli ultimi mesi, l’attività di mediazione statunitense è stata supportata anche dalla Francia. Il Presidente Emmanuel Macron non ha voluto perdere l’influenza sul vecchio protettorato dell’Impero francese. Pertanto, facendo valere i legami storici con Beirut, ha ottenuto la possibilità di costruire le piattaforme e mettere in funzione i giacimenti. Mossa astuta. È infatti probabile, che il know-how portato da Total nel Mediterraneo Orientale, venga ripagato dal Libano con la vendita a prezzi ribassati degli idrocarburi estratti.
Un futuro incerto
Israele e Libano non hanno relazioni e sono in stato di guerra dalla nascita dello stato ebraico nel 1948. I due paesi non hanno mai concordato sulla definizione dei confini terrestri, e quella che vediamo sulle carte è solamente una linea del cessate il fuoco, disegnata dalle Nazioni Unite e nota col nome di Blue Line.
Queste poche informazioni spiegano da sole il clamore dei media per il raggiungimento dell’accordo. D’altra parte la lontananza fra le parti resta. Difatti se il testo dovrà essere firmato entro il 31 ottobre, data oltre la quale entrambi i paesi assisteranno a una nuova tornata elettorale, nessuna cerimonia vedrà l’incontro delle parti. Le firme saranno apposte dai rispettivi presidenti in momenti e stanze diverse, alla sola presenza dei mediatori statunitensi.
La volontà di sbandierare una distanza anche simbolica resta una prassi dei rapporti israelo-libanesi. Ben più serie sono le opposizioni che hanno fatto sentire la loro voce, gettando un’ombra sul futuro dell’accordo.
Il partito filoiraniano Hezbollah ha fatto sapere di essere, tutto sommato, d’accordo con quanto pattuito dal governo. Il leader Hassan Nasrallah ha tuttavia lanciato un monito, promettendo che qualsiasi violazione dei termini (n.b. dell’accordo) da parte israeliana comporterà una risposta militare del gruppo.
Sembra invece non lasciare alcun margine al compromesso il leader del partito Likud -estrema destra israeliana- Benjamin Netanyahu. L’ex premier, nonché potenziale vincitore delle prossime elezioni ha dichiarato che “questo non è un accordo storico ma una storica capitolazione alle minacce provenienti dal Libano”. Essendo noto il pragmatismo di Netanyahu, qualora dovesse tornare a capo della Knesset, non è escluso che rompa l’accordo prima ancora che gli entusiasmi si siano placati.
Enrico Raugi