E’ la generazione z, cresciuta davanti a schermi digitali e non sa cosa sia l’analogico. E’ contrapposta alle tre precedenti generazioni, i baby boomer, generazione x e millennials, che, anche se poco, un contatto tra loro l’avevano.
La generazione Z no. E non si tratta solo di tecnologia. Fanno tutto in modo diverso dalle generazioni precedenti: amano, credono, fanno sesso, socializzano diversamente.
E vogliono cose diverse dalla loro vita. La professoressa Jean Twenge, docente di psicologia alla San Diego State University, studia l’andamento generazionale da venticinque anni, e ora tira le somme dei ragazzi nati dopo il 2000.
Un libro per spiegare la generazione z
Lo fa in un libro pubblicato in agosto dal titolo: “iGen: perché i bambini super-connessi di oggi stanno crescendo meno ribelli, più tolleranti, meno felici e completamente impreparati per una vita adulta e cosa significa per noi” dove analizza gli adolescenti americani.
Studi e statistiche dicono che negli ultimi dieci anni il numero di bambini e adolescenti americani ricoverati per aver mostrato intenzioni suicide è più che raddoppiato.
Tra il 2007 e il 2015 è aumentato del 31% il tasso di suicidi dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni, mentre raddoppia nelle ragazze.
Non si può affermare che tutto sia legato all’ascesa dei social media. Questi ragazzi sono nati e cresciuti in tempi piuttosto “cupi”: stragi, guerre e terrorismo, la peggiore crisi mondiale degli ultimi decenni.
Quotidianamente si trovano davanti una realtà mediata da uno schermo, immergendosi in un mondo che spesso mostra una vita che non esiste. Il problema è il loro distacco dal mondo, e non sembra strano possano essere aggrediti da un profondo senso di solitudine.
Una vita online
I dati raccolti dalla professoressa Twenge si basano su cinquecentomila adolescenti americani e mostrano gran parte di loro connessi costantemente sui social media attraverso smartphone o computer, con una visione piuttosto pessimista e negativa della vita, mentre chi usa normalmente questi strumenti trascorre il tempo facendo i compiti o uscendo con gli amici, dichiarando più serenità.
La stessa Twenge dice che non c’è necessariamente un nesso di causalità, ma chi già è triste forse trova una maggior consolazione nei social. Però sono ormai numerosi gli studi che legano la dipendenza allo smartphone a tristezza e distacco dalla realtà.
Sembra chiaro il nesso tra permanenza online e minore felicità. Studi precedenti provano che se i social network vengono utilizzati per interagire poi direttamente con i coetanei possono essere positivi ma non se ci trasmettono solo vite da favola. Le persone pubblicano solo ciò che vogliono che tu veda, e spesso si tratta di una realtà edulcorata.
Questi giovani diventeranno adulti
dice Jean Twenge, “ e noi tutti abbiamo il dovere di capirli e badare a loro. Perché dove iGen va, così va anche la nostra nazione e il mondo”.
Alessandro Desogus