Per tre anni, dal 2016 al 2018, avevamo visto quasi la luce in fondo al tunnel. Sembrava che il gender pay gap italiano si stesse riducendo. Tra 2019 e 2020, però, è tornato a crescere. E poi è arrivata la pandemia. Ma cosa è il gender pay gap?
Si tratta in parole povere della differenza di stipendio tra uomini e donne e in Italia, attualmente, ammonta all’11,1%. A svantaggio femminile, chiaramente. Praticamente, le donne vengono pagate come se lavorassero un mese in meno, con una perdita lorda di 3000 euro lordi annui. E’ come se iniziassero a lavorare dal 6 di febbraio, su un anno lavorativo che va dal 1° gennaio al 31 dicembre.
Ancora 55 anni
L’Italia si trova al diciottesimo posto tra i Paesi dell’Europa che hanno una maggiore gender equality dal punto di vista della retribuzione. Si stima che serviranno circa 55 anni per raggiungere la parità retributiva.
Il glass ceiling
Si tratta in molti casi di una questione prima strutturale che contabile: difficilmente, infatti, in Italia, le donne occupano posizione dirigenziali. Nel settore pubblico e privato, su 3 dirigenti, c’è spazio per una sola donna. Le difficoltà strutturali che rafforzano il glass ceiling che separa le donne dalle posizioni apicali non sono state superate dagli interventi legislativi in materia, come le celebri “quote rose”.
Indipendentemente dal titolo di studio
Il problema, inoltre, riguarda il salario vero e proprio, anche quando si guarda a inquadramenti uguali. Secondo le ricerche di JobPricing e di Spring Professional, il guadagno delle donne è inferiore dell’8% nel caso delle dirigenti rispetto ai colleghi uomini, mentre si acuisce scendendo nell’organigramma, arrivando all’11% tra impiegate e operaie. Il gender pay gap, quindi, non guarda in faccia nessuno, nemmeno chi ha un dottorato o una laurea: anche qui il divario è lo stesso, nonostante in media le donne si laureino prima e con voti migliori rispetto ai compagni maschi.
Nei settori finanziari, inoltre, lo scarto tra stipendi maschili e femminili è più che doppio. E’ invece l’agricoltura il settore meno discriminante, con stipendi praticamente pari tra uomini e donne.
Le conseguenze della pandemia
Quello che i dati ci diranno nei prossimi anni, inoltre, non può essere oggetto di grande ottimismo. Il 2020 e la pandemia del coronavirus, infatti, si sono abbattuti con particolare violenza sull’occupazione femminile. I dati dell’Istat sul mercato del lavoro dopo il lockdown, infatti, mostrano un aumento nella disoccupazione femminile. Se la situazione stava migliorando, lentamente e a fatica, il macigno della crisi economica verrà ancora una volta portato dalle lavoratrici.
Al Festival dell’economia di Trento di quest’estate se n’è parlato diffusamente. La sociologa Chiara Saraceno ha infatti presentato una situazione drammatica per le donne e la loro occupazione: «La crisi pandemica ha colpito un’ economia e società che avevano già bassi tassi di occupazione femminile, scarse politiche di conciliazione lavoro-famiglia, stereotipi di genere molto rigidi con una divisione del lavoro in famiglia in base al genere ancora molto asimmetrica, anche se in lentissima evoluzione. E grandi differenze territoriali in tutti questi aspetti. La crisi pandemica ha insieme accentuato questi aspetti e reso visibile il fragile equilibrio su cui si tenevano».
Più colpiti i settori che impiegano donne
Le fa eco poi l’economista Alessandra Casarico, che spiega gli effetti diversi della crisi economica su uomini e donne, sostenendo che i settori ad alto impiego di manodopera femminile siano quelli maggiormente esposti. Le donne, sempre secondo Casarico, sarebbero più esposte a lavori con alto contatto sociale, tra cui ristorazione e commercio, fortemente intaccati dalle limitazioni inserite anche nel nuovo Dpcm. In questo, ogni crisi è diversa dall’altra: quella del 2008, ad esempio, aveva schiacciato nella sua morsa i settori ad alta occupazione maschile, come la manifattura e l’edilizia.
E ancora il divario tra Nord e Sud
E con gli asili chiusi?
Elisa Ghidini