C’è un’area nel sud-ovest della città di Khan Yunis, nel sud della striscia di Gaza, chiamata Nahr al Bared. Ci abitano circa cinquecento persone, che vivono in case fatiscenti, senza reti fognarie né acqua, e circondate da montagne di immondizia. Non troppo distante – dal momento che nel territorio c’è una moschea ogni 3-4 chilometri – ci sarà un’imponente moschea con decorazioni lussureggianti. Di chi è la colpa di questa palese contraddizione, dall’ironia alquanto amara?
Non è chiaro nemmeno ai protestanti, accesi nelle ultime settimane per la decisione di impiegare più di un milione di dollari per ricostruire la moschea Al-Wazir, distrutta dagli attacchi israeliani del 2014. È una decisione presa dal Ministro degli affari di Hamas, organizzazione palestinese di carattere politico e paramilitare che governa Gaza dal 2006, anno in cui ha vinto le elezioni legislative.
Perché impiegare così tanti soldi nella costruzione di moschee, anziché in forme di assistenza sociale?
È una domanda che per ora non ha trovato risposta, a causa di diversi tentativi di sviamento dalla questione. Tra le istituzioni coinvolte, c’è chi sostiene che i costi previsti da un progetto simile andrebbero comunque ai lavoratori e alle aziende vincitrici degli appalti. C’è, inoltre, chi sostiene che la finalità degli investimenti dipenda dalla volontà delle associazioni di beneficienza: quella in questione, Aman Palestin, avrebbe indirizzato l’importo esclusivamente alla costruzione di una moschea – sebbene ciò sia stato smentito dalla stessa associazione.
“Ci sono 12 000 unità abitative che necessitano di ricostruzione dopo essere state distrutte durante l’aggressione israeliana del 2014, per un costo di 50 milioni di dollari”, afferma Naji Sarhan, viceministro del ministero dei Lavori pubblici e dell’edilizia abitativa di Gaza in una dichiarazione.
In più, negli ultimi dieci anni le condizioni della popolazione palestinese hanno subito dei peggioramenti, a causa del blocco israeliano del 2006, delle frequenti guerre con Israele, e infine dell’emergenza sanitaria mondiale. L’80% della popolazione vive grazie a programmi di assistenza umanitaria, e il tasso di occupazione giovanile ha raggiunto il 70%. Tutto ciò ha provocato inevitabilmente un senso di allontanamento dalle moschee da parte della gente bisognosa, oltre che un profondo risentimento, condiviso anche da coloro i quali hanno investito i loro risparmi nelle associazioni di beneficienza, e le cui aspettative sono rimaste deluse.
Contestare la destinazione delle risorse non vuole essere una mancanza di rispetto nei confronti dei luoghi di culto palestinesi, la cui violazione e distruzione di massa nei bombardamenti con gli israeliani sono innegabili.
“Le nostre esperienze collettive, le nostre sofferenze, gioie, speranze e fede rendono un luogo di culto quello che è“,
Afferma il giornalista Ramzi Baroud nel raccontare quella che ha definito la Notre-Dame di Gaza, la moschea di al-Omari andata distrutta l’8 luglio 2014.
Francesca Santoro