Istanbul “sotto attacco” – Secondo quanto riportato poco fa dall’ANSA, le autorità turche avrebbero colpito centinaia di manifestanti Lgbt+; i permessi erano stati vietati, l’ultima manifestazione risale al 2014.
Si erano radunati attorno a locali e per le strade, intenti ad aggirare lo scoglio del bando emesso dal governatore Necati Şentürk. Secondo le fonti attuali, l’autorità in questione non avrebbe voluto concedere l’utilizzo della piazza centrale di Taksim. Il neo sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, sottoscrive la sua disponibilità a discutere dell’accaduto.
Nonostante la Turchia abbia “legalizzato” l’omosessualità da ormai decenni, la reazione della polizia parla da se; sono noti infatti episodi discriminatori che ormai delineano un rapporto freddo e distaccato da parte di molti cittadini. Altrettanti sono coloro che hanno provato a far resuscitare il Gay Pride, ormai vietato da 5 anni. La polizia ha disperso gli attivisti con l’uso massiccio di lacrimogeni. Un video testimonia il fatto.
Ancora una volta ci si guarda alle spalle e ci si accorge che, qualcuno, ha brutte gatte da pelare: nel 2014 furono 100.000 le persone a partecipare, segno di una forte richiesta di sostegno e progresso. La “legalità dell’omosessualità”, già di per sé, suona piuttosto male e stride, di fronte alla semplice consapevolezza di cosa possa significare “diritto umano”. Istanbul vive sulla propria pelle la presa di coscienza di essere sola, circondata dai muri della repressione, inibita dalle più semplici realtà della vita quotidiana. La sconfitta di Erdogan rappresentava un piccolo segno di speranza, non abbastanza ma neanche troppo poco per far finta di nulla.
La realtà dei fatti è che, attualmente, rialzare la testa appare difficile, nonostante siano in molti a volersi difendere, recuperare la dignità di essere “cittadini del mondo” e non solo di Istanbul; non si può biasimarne la sfiducia, perfettamente espressa dai risultati delle ultime rappresaglie politiche. Arrivare ad utilizzare lacrimogeni o proiettili di gomma è solo il simbolo di un contorno più ampio e complesso, l’esternazione di una cultura soffocata, la cui libertà resta uno specchietto per le allodole.
Eugenio Bianco