A Garbage City, tra le mani degli Zabbaleen, termine che in arabo si traduce con “gli uomini della spazzatura”, passa da un terzo alla metà delle migliaia di tonnellate di rifiuti che la citta del Cairo produce ogni giorno.
Il dato sorprendente è che questi “netturbini” d’Oriente riescono a riciclare circa l’85% di quella che arriva, superando grandemente i numeri delle maggiori città occidentali. A Garbage City, sobborgo alle pendici del monte Moqattam, la vita quotidiana obbedisce ai dettami della raccolta e dello smaltimento dell’immondizia.
Quando nasce Garbage City?
Dostoevskij, che del congegno umano ne sapeva in abbondanza, già due secoli fa ci insegnava a comprendere l’uomo, definendolo un essere che si adatta a tutto. Ed è da questa determinazione che potrebbe principiare la storia degli zabbaleen. Il popolo profugo approda a Manshyet Naser, località del Cairo, negli anni Quaranta del secolo scorso. Per lo più di religione copta ortodossa, gli esuli provengono dal distretto di El-Badari, nella regione rurale di Asyut, nell’Alto Egitto, dilaniata dalla siccità. Quello che i rifugiati trovano al termine dell’esodo non è di certo l’Eden. Tende e baracche al posto delle case, stuoie al posto dei letti e carretti trainati da animali da soma al posto dei mezzi di trasporto. Niente acqua, né elettricità, né strade. Solo una catasta di immondizia, una raccapricciante montagna di spazzatura, molto più inquietante dello scuro altipiano cairota che li sovrasta.
La trasformazione di Garbage City
Sebbene la zabbala, parola araba che indica l’immondizia, resti l’indiscussa protagonista di questo obliato angolo di mondo, la comunità degli zabbaleen si è guadagnata nel tempo il proprio riscatto sociale. L’aiuto dei missionari umanitari è stato di certo provvidenziale per raggiungere condizioni di vita almeno accettabili, ma l’ingegno di trasformare una insidia in opportunità virando prospettiva è da attribuire indubbiamente alla comunità. Insinuandosi nel cuore di Garbage City la prima cosa che l’occhio registra, tra i vicoli terrosi e aridi tipici delle periferie indigenti del Cairo, è ancora la spazzatura. Ma gli uomini che la abitano non sono più infestati da pulci e pidocchi, bevono acqua potabile e il sobborgo non è più una disumana baraccopoli. Nella kafkiana enclave di Manshyet Naser sono sorti negozi, panifici che sfornano focacce e pane azzimo, bar nei quali fumare la shisha e persino macellerie al cui banco è possibile trovare carne di maiale. Le vie sono contaminate da rimandi religiosi alla simbologia cristiano-ortodossa: icone di madonne, immagini del papa dei copti d’Egitto, Shanuda II, ornano ogni anfratto, ogni casa, ogni attività commerciale. Se il santo protettore è San Simone il conciatore, il vero miracolo lo hanno compiuto gli uomini. Nel 1974 la roccia sovrastante il sobborgo è stata solcata, costruendo nel suo grembo un santuario consacrato al santo, oggi meta di pellegrinaggi da tutto il mondo.
Da vergogna del Cairo a buona prassi del riciclo di rifiuti
Il suburbio inchinato alla collina di Moquattam oggi è abitato da uomini dignitosi, molti dei quali proprietari di imprese commerciali e abbigliati elegantemente. Donne e bambini passeggiano in tutta tranquillità senza indossare il velo e sfoggiando colori brillanti. Quello che ieri era uno degli angoli più raccapricciante del mondo, negli ultimi decenni ha visto sorgere una sessantina di aziende, impiegando più di 1.400 dipendenti. La sferzata acre e pungente di pattume ancora lambisce le strade di Manshyet Naser, ma funge anche da memorandum: i problemi possono diventare opportunità. È stato persino costruito un ospedale, affiancato da una piccola clinica, presidi sanitari essenziali nell’ade dei rifiuti. Sebbene la questione igienica sia di molto migliorata, continua infatti a registrarsi uno spropositato numero di malattie respiratorie e infettive.
Una taccia che non perdona
Garbage City, nonostante la cortina di civiltà dignitosamente intascata, continua ad essere considerata una vergogna, una realtà distopica i cui abitanti vengono commisurati ai roditori. Un carnaio ai margini dell’umanità che neanche il Governo ama menzionare. Eppure, il peso degli zabbalini, in una capitale che conta oltre 20 milioni di abitanti, è sesquipedale: senza il loro lavoro il problema dei rifiuti al Cairo rischierebbe di diventare una emergenza sanitaria. La connotazione che più fa storcere il naso al mondo arabo, come è noto a maggioranza musulmana, riguarda la tradizione zabbaleen di utilizzare i maiali per smaltire i rifiuti organici. Nel 2009 il Governo ha ordinato di abbattere tutti i suini di proprietà zabbaleen, dovendosi poi nuovamente rivolgere alla comunità rinnegata per contenere il problema dei rifiuti. La minoranza non ha serbato rancore e, quotidianamente, si occupa di raccogliere, sminuzzare, separare, riciclare e ricommercializzare circa 3.000 tonnellate di pattume. I netturbini recuperano porta a porta i sacchi di immondizia, li aprono, li esaminano e la suddividono in 16 materiali diversi. Un trattamento dei rifiuti, divenuto un vero e proprio business, dal quale tante realtà occidentali avrebbero molto da imparare.