L’indiscrezione sulla scelta del governo di affidare a Eni i negoziati del G20 su ambiente e energia ha sollevato malumori, soprattutto, tra gli ambientalisti. Ma la green economy non potrà decollare senza l’impegno delle multinazionali sulla transizione energetica. Il processo verso lo sviluppo sostenibile, quando sarà compiuto, rappresenterà una fase nuova per il mondo. Costretto a fronteggiare due emergenze: la pandemia di Coronavirus e il cambiamento climatico con i suoi effetti, molti dei quali, già irreversibili.
G20 su ambiente e energia, come guida il governo guarda a Eni
Dal 1° dicembre 2020, l’Italia presiede il G20 che riunisce le principali economie del mondo. In occasione della presidenza, il nostro Paese ha deciso di strutturare il G20 attorno al trinomio People, Planet, Prosperity in un momento storico critico per la comunità internazionale. La presidenza italiana si concluderà con il vertice dei leader mondiali che si terrà a Roma il 30 e il 31 ottobre 2021. Mentre il tavolo dei lavori su ambiente e energia si svolgerà a Napoli il 22 e il 23 luglio 2021. Si discuterà di salute e sostenibilità ambientale. A presiedere la riunione, anche il ministro dell’Ambiente Sergio Costa e quello dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli. Se confermata, la decisione del governo Conte di far partecipare Eni non è di certo casuale.
Tra i tecnici di Palazzo Chigi figura l’addetto ai rapporti con la Farnesina e alle relazioni diplomatiche di Eni. Su Protecta Web Luca Iacoboni, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia ha affermato:
«Aziende come Eni, che hanno grossi interessi internazionali nell’ambito del mercato delle fossili e le cui attività hanno un impatto negativo sul clima del Pianeta, non devono essere coinvolte dai governi quando questi hanno un ruolo di presidenza di importanti vertici internazionali. E […] non dovrebbero avere questo ruolo nei tavoli tecnici. Ne va della credibilità dei lavori».
Il rischio di un conflitto di interessi al tavolo del G20 su ambiente e energia
Le preoccupazioni di Greenpeace infatti sono comprensibili ma si scontrano con almeno due aspetti. Il primo è che nel chiacchierato Recovery Plan, oltre il 30 per cento delle risorse dovrà essere destinato alla green economy, quindi anche alla transizione energetica, sulla quale Eni, Enel, Snam e le altre multinazionali hanno iniziato a lavorare già da una decina di anni. Il governo destinerà una parte delle risorse del Next Generation Eu alle multinazionali che, non c’è dubbio, si sono orientate verso le fonti rinnovabili in ritardo. Del cambiamento climatico si discute da oltre vent’anni nelle Conferenze sul clima (COP). Quest’anno, la COP26 si svolgerà proprio in Italia. Ma la responsabilità è prima di tutto del Legislatore. Della politica.
Il secondo: è altrettanto vero che si continua a escludere un drastico (e traumatico) abbandono dei combustibili fossili – in particolare metano e petrolio – da cui dipende ancora il 75 per cento del fabbisogno energetico mondiale. La transizione energetica richiede investimenti miliardari. E una progettualità di lungo periodo. Nel medio, l’Unione europea è stata la prima ad avere deciso di puntare sull’idrogeno blu.
Abbattere i costi delle fonti rinnovabili, come l’idrogeno verde, richiede risorse e tempo. Non ci sono altri attori, diversi dalle multinazionali, dotati della stessa tecnologia, del know how e del capitale per rivoluzionare il sistema energetico. Agli Stati il compito di indirizzare e verificare che i privati facciano davvero la loro parte contro il cambiamento climatico.
La politica è il decisore. Sì ai tecnici ma solo se indipendenti
Infine, c’è una domanda cruciale: chi altro se non le big company del petrolio e del gas possono sedere al tavolo del G20? Chi altri ha le competenze necessarie? L’attuale classe dirigente infatti ne sembra sguarnita.
Per ovviare a un concreto rischio di conflitto d’interessi, là dove la politica non è in grado neppure di indirizzare, sarebbe opportuno aprire i lavori del G20 su ambiente e energia anche agli attori civili, per esempio, le associazioni ambientaliste di rilievo internazionale come Greenpeace. L’organizzazione, attiva da oltre trent’anni, rilancia un suo piano di rivoluzione green, denominato “Italia 1.5”, che punta ad abbandonare nel più breve tempo possibile anche il gas fossile.
Il rischio che siano i privati a dettare l’agenda politica è altissimo. Soprattutto quando proprio la politica non è stata capace di dettare in modo autonomo un progetto di transizione energetica.
Per contrastare efficacemente il cambiamento climatico, è necessario velocizzare investimenti sulle fonti rinnovabili facendo un buon uso delle risorse pubbliche che in tempi eccezionali come quelli che stiamo attraversando gli Stati hanno deciso di utilizzare.
Al momento, la politica italiana non dispone né di tecnici indipendenti né delle conoscenze necessarie per sedere al tavolo delle trattative del G20 su ambiente ed energia. Il fatto grave è che in questo modo la classe dirigente si spoglia del ruolo distintivo di decisore. Incapace di disegnare una traiettoria per evitare che gli interessi di pochi soffochino quelli collettivi.
E non è poco. Il governo Conte quale alternativa avrebbe avuto? Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio?
Chiara Colangelo