Cosa succede a un gruppo terroristico quando il suo leader viene ucciso? E’ questa la domanda che molti analisti si stanno ponendo, per cercare di prevedere i possibili scenari derivanti dalla morte di Abu Bakr Al Baghdadi, avvenuta nelle prime ore di domenica 27 ottobre, per mano delle forze armate statunitensi, impegnate in un’operazione di intelligence molto complessa al confine tra Siria e Turchia. Ai pomposi entusiasmi dei primi minuti, fomentati dai toni poco istituzionali del presidente Trump, sono seguiti giorni di interrogativi e, naturalmente, preoccupazioni.
Tanti dubbi e una sola certezza: l’Isis non è in crisi
Tra le poche certezze su cui si concorda è che la morte del capo del califfato non comporterà certamente la fine della propaganda e dell’attività dello Stato islamico. Potrebbero derivare alcune conseguenze dal punto di vista della leadership. Non è improbabile che l’attività terroristica si inasprisca, in una sorta di rappresaglia che vada a vendicare la morte di al Baghdadi. L’obiettivo da questo punto di vista sembra coerente con la consueta strategia antiterrorismo di questi anni. Decapitare una formazione terroristica potrebbe inasprire conflitti interni ed eventuali contrasti per la successione, oltre a privare la stessa di una persona forgiata da quasi dieci anni di esperienza alla guida dell’Isis. Da questo, però, alla sconfitta del terrorismo c’è ancora molta distanza.
La storia dell’Isis
L’Isis è una formazione terroristica piuttosto longeva, che è riuscita nell’ambiziosa operazione di creare una struttura parastatale nelle zone conquistate. L’organizzazione trova infatti terreno fertile dove ci sono guerre, settarismo e in assenza di istituzioni statali trova spazio per inserire i suoi leader. L’organigramma dello Stato islamico sembra essere molto complesso, con ruoli ed equilibri ben definiti. Lo scopo è evitare che il venir meno di un leader, per carismatico che sia, comprometta il futuro del califfato stesso. Diametralmente opposta, ad esempio, l’organizzazione interna di Al Qaida, che, alla morte di Osama Bin Laden, dovette affrontare il problema di una struttura eccessivamente imperniata sulla figura del leader. Al Qaida, infatti, è stata più volte definita come un’organizzazione “centralizzata nelle decisioni e decentrata nell’esecuzione”. Non sembra questa però una caratteristica che metta a rischio il futuro dell’Isis.
Ciò rende più debole Al Qaida, rende più forte l’Isis
Il punto di forza invece dello Stato Islamico è proprio questa mancanza di centralizzazione, a favore di una capillarità che ha saputo purtroppo colpire e, al contempo, intessere relazioni politiche in Afghanistan, Libia, Filippine, Penisola del Sinai in Egitto e Nigeria. Nei contenuti che lo Stato islamico condivide in rete sono frequenti gli appelli ad agire in nome dello Stato islamico. Chiunque, senza bisogno di progetti preordinati, può raccogliere l’invito e improvvisarsi terrorista. Recentemente, gli Stati Uniti hanno diffuso un rapporto che parla di un numero di affiliati che va dai 14 mila ai 18 mila. Tra le fila ci sarebbero anche 3 mila stranieri. A rimpinguare un numero già impressionante di seguaci ci sarebbero poi anche le iniziative di reclutamento sui social. Secondo il New York Times, nel settembre del 2014 c’erano più di 2.000 europei e 100 americani tra i combattenti stranieri.
Quante possibilità ha l’Isis di tornare a colpire?
Purtroppo non vi è nessuna risposta in merito al futuro dell’Isis. Nulla fa sperare che le azioni terroristiche siano terminate con la morte di al Baghdadi. Il futuro dell’Isis potrebbe infatti ripartire dalla rappresaglia per l’uccisione del leader da parte degli statunitensi. Nulla poi fa immaginare che la momentanea mancanza di leadership possa tradursi nello sfaldamento dell’organizzazione. Allo stesso modo, nel 2006, gli Usa uccisero Abu Musab al-Zarqawi, capo di una sorta di Stato islamico ante litteram, ma questo non creò problemi nella riorganizzazione dell’attività terroristica.
Elisa Ghidini