Questo articolo non ha la presunzione di essere una classica recensione. Esula dai consolidati parametri della “storiografia” teatrale; non verranno riportati dati tecnici su nomenclatura di scenografi, storie di dietro le quinte, regie scorse e via dicendo. Il focus è un altro, di natura prettamente “umanistica”.
Questa parola, utilizzata oramai solo in alcuni ambiti specialistici, sta perdendo il suo significato originario: disciplina che ha ad oggetto la conoscenza dell’uomo, del suo pensiero, della sua attività spirituale e del suo comportamento attraverso i tempi. Le arti in quanto tali assolvono a questo compito. Sì, utilizziamo la parola “compito”, in quanto è un dovere, e il dovere per definizione implica il limite, che sia del buon senso, che sia del buon gusto, che sia del “timore di Dio” (in senso lato, ovviamente).
È andata in scena, e lo sarà fino al 5 novembre, al teatro Quirino, l’opera “Medea”, con Franco Brancioli e regia di Luca Ronconi. La sfida è sicuramente ardua quando in gioco ci sono i “famigerati” classici, tragedie e così via, che comportano il dilemma moderno: attualizzarle o meno? Come si può riproporre il passato, senza tediare e dare lo stesso sempiterno spettacolo? Invece che decontestualizzare, a questo punto, è meglio inventare una nuova storia e habitat. Perché snaturare? E se sì, almeno fatto con buon gusto e non con il solito intento oramai diffuso, di porgere retorica e politically correct.
Il bello della finzione, della fantasia, è il mondo che ti si apre davanti. È il lavorio, la frenesia dell’individualismo. L’arte è individualità. L’arte è eterogeneità. Il pubblico non è una massa informe, passiva. Ogni singolo elemento ci mette del suo quando è osservatore e compartecipa. L’intento autoriale non deve essere solamente di scioccare o sensibilizzare, come oramai accade nella prosopopea artistica contemporanea. I documentari, la saggistica, gli editoriali servono a questo.
Fondendo il tutto, diventa una commistione, senza gusto e ridondante, traboccante di retorica che “vince facile”. L’artista non deve vincere facile. E soprattutto non deve ridicolizzare quello che è eterno e fa parte di un cammino stilistico-umano. Medea è il dolore, la veemenza, la solitudine, la carnalità, la terrestrità, l’audacia. È una maschera primigenia. Nata prima dell’uomo e che sopravvive all’uomo.
Non può essere volgarizzata, discinta, contestualizzata in modo friendly tra donne dismesse anni quaranta, con cui fa confidenze e pettegolezzi in un’atmosfera triviale. È un simbolo. È l’arcano. Ha una dignità da cui noi, come gens, traiamo origine. Giasone non può essere impersonato come un banale tombeur de femme in canotta che si giustifica con la moglie per delle scappatelle. No comment su Egeo.
Ma il ruolo peggiore, purtroppo, lo recita il pubblico. La passività di accettare ogni cosa proposta. Anche una sorta di violenza. La dignità dell’arte è un valore inestimabile. Come lo è lo spirito critico e personale in ognuno di noi. Deve essere serbato in ogni lavoro e occupazione che si affronta. Il pensiero deve essere eterogeneo, la forma, lo stile, altrimenti il risultato sarà solo un unico mare magnum. Non bisogna temere l’estremizzazione delle opinioni o la differenziazione di giudizio. Non bisogna temere il limite.
Non è vero che ogni cosa è lecita. Se Leopardi non avesse sentito la sua finitezza non avrebbe scritto opere tante appassionate, superando se stesso. Se Rilke avesse badato al politically correct, la sua copiosa e meravigliosa corrispondenza con Salomè non sarebbe mai nata.
E se uno spettacolo inizia con una nenia zingaresca e con un’installazione di un intervento a cuore aperto è solo un rigurgito di contingenza senza alcun senso, che non collima con quella sensibilità senza tempo né luogo che rende le opere grandi. E, fallo ancor più grande, non porta la conoscenza del dramma, perché tutto pareva tranne che Medea.
Anche le sonorità a teatro sono fondamentali. Il potere della voce e delle parole (Fedra a Ippolito). Suoni sconnessi, sciatteria nella pronuncia, un recitato volutamente disarmonioso e sgradevole, chi l’ha supposto che modernità voglia dire questo?
Il filtro tra la scena è il pubblico è un fuoco sacro che deve essere alimentato; il meraviglioso “gelo” di Eduardo de Filippo che ha fatto della sua vita un’opera d’arte esclusiva. L’esclusività dell’arte e il suo rapimento inesorabile. Basta la frugalità di una scena, dei “baffi dismessi” per dar l’impressione della finzione. Fornire l’input al pubblico di essere parte integrante di un processo creativo, ove l’individuo deve e può spaziare con la fantasia. E per giorni e giorni viaggiare ancora, andando oltre i limiti della contingenza, della polemica sterile, del politically correct.
E giù il sipario.
Costanza Marana
Medea: regia di Luca Ronconi. Almeno sapere quello che si vede.