Una ricerca proveniente dall’Università di Princeton e pubblicata nel numero del 22 agosto di Neuron ha sorpreso persino i ricercatori che l’hanno condotta, rivelando che il processo dell’attenzione non è continuo, funziona (per usare una delle tante metafore che hanno usato per illustrare il concetto) come una luce stroboscopica. In realtà i lavori scientifici sono due separati ma sono stati pubblicati insieme, uno è stato condotto su umani, l’altro su primati e i risultati sono stati concordi, anche per i nostri parenti più prossimi del regno animale funziona così. I due team hanno lavorato in parallelo e una ricercatrice, Sabine Kastner, appare anche tra gli autori di quello sugli umani pur essendo tra gli autori principali dello studio sulle scimmie.
Che cosa ha scoperto lo studio di preciso? Che quando pensiamo di stare concentrandoci a lungo su un soggetto in realtà viviamo un’illusione, l’attenzione funziona a finestre in cui si percepisce più o meno, ogni 250 millisecondi, dunque per ben quattro volte al secondo, il nostro focus si interrompe. In realtà non è che il nostro cervello stacchi e si riposi, in quel momento cattura stimoli dall’ambiente circostante, da ciò che sta intorno al soggetto della nostra attenzione. Sempre per utilizzare le metafore relative alle luci suggerite nell’articolo divulgativo della Princeton University: immaginate di avere un potente faretto che illumina l’oggetto della nostra attenzione, ogni 250 millisecondi il faretto si spegne e si alza l’illuminazione della stanza.
Il nostro cervello riunisce queste finestre di attenzione in quello che a noi sembra un flusso continuo.
Il ricercatore Ian Fiebelkorn, che è il primo autore dello studio sui macachi, spiega questa interruzione periodica dell’attenzione come una possibilità per il nostro cervello, quattro volte al secondo il nostro cervello ha la possibilità di decidere se spostare la nostra attenzione su un altro soggetto o tornare a focalizzarsi su quello su cui eravamo concentrati.
Considerazione personale: facile immaginare che questo funzionamento abbia origini evolutive molto utili per percepire pericoli attorno a noi anche quando siamo profondamente concentrati su qualcosa, magari evitandoci di diventare prede mentre siamo appostati come predatori.
Oh aspettate, pure questo era scritto nell’articolo originale, giuro che non avevo letto quella parte ancora, in questo momento mi sento molto “figo”, in realtà, scherzi a parte, credo che fosse una ipotesi deduttiva che qualsiasi persona con una minima cultura scientifica di base avrebbe fatto.
La Kastner sottolinea fiera che a sua conoscenza questo è il primo studio al mondo pubblicato in questo modo, due ricerche condotte fianco a fianco su umani e macachi che forniscono una convalida interspecie di un aspetto fondamentale del comportamento umano. Usualmente si suppone che ciò che è vero nei primati sia vero nell’uomo, ma è la prima volta che uno studio (o meglio due) lo prova con questa accuratezza.
Il bello è che gli scienziati non stavano cercando di dimostrare questo funzionamento ritmico del cervello, l’ho scritto che ha sorpreso persino i ricercatori, lo studio era partito per indagare come il nostro cervello seleziona elementi di interesse, soggetti su cui focalizzare l’attenzione, dall’ambiente circostante.
Altra cosa interessante è che noi sappiamo che il cervello funziona a ritmi fin dall’invenzione dell’elettroencefalogramma nel 1924 ma non avevamo idea di cosa significasse, ora per la prima volta questi studi collegano questi ritmi a un comportamento umano.
Roberto Todini