Composto da nove afroamericani e un keniota, il team “all black” del Full Circle Everest Expedition è in viaggio, dall’8 aprile 2022, per raggiungere il tetto del mondo. Un solo obiettivo: scrivere una nuova pagina nella storia per vincere, così, le discriminazioni.
Sono in dieci e ad accomunarli non è solo il colore della pelle, quanto la passione per la montagna e il desiderio di una prima volta senza precedenti: scalare insieme l’Himalaya. E dimostrare così che può esserci equità anche in un settore che, storicamente, non si è distinto per apertura. Dal 1953, infatti, di oltre 6.000 alpinisti, sono appena otto gli africani ad aver portato a termine la spedizione sul monte Everest, che avvicina l’uomo al cielo. Il primo a riuscirci, nel 2003, fu il sudafricano Sibusiso Vilane, lodato perfino da Nelson Mandela, che non esitò a definirlo eroico. Allora, quando il Nepal ha rilasciato 480 permessi agli alpinisti per la primavera 2022, il Full Circle Everest ha potuto cominciare il suo cammino, pronto a raddoppiare, in un solo colpo, il numero a oggi esiguo di alpinisti neri sulla vetta più alta del pianeta.
Full Circle Everest
Sono quasi 8.849 i metri che separano il picco dal livello del mare. Centinaia di alpinisti hanno perso la vita nel tentativo di cimentarsi in quella sfida irresistibile che chiede di ripensare ogni limite, fisico e mentale.
Il Full Circle Everest, però, non è spronato solo dal brivido della conquista, ma dal senso di una missione spartiacque per le generazioni successive. Il nome del team evoca immagini di dinamismo: andare sempre avanti, coltivare esperienze e restituirle agli altri, in un ritorno continuo. Ma significa anche creare un vero circolo “all black” che innalzi il livello di rappresentazione delle comunità nere nel mondo dell’alpinismo.
Il gruppo è misto, formato da uomini e donne sotto la sapiente guida dall’afroamericano Phil Henderson, già protagonista di imprese eccezionali sul monte Denali e sul Kilimangiaro. Ma l’Everest ha un altro sapore: chiamato anche “madre dell’universo” (dal tibetano Chomolungma) e “Dio del cielo” (dal nepalese Sagaramāthā), la sua valenza simbolica è impareggiabile. Certo, l’ascensione ha costi non indifferenti, aspetto che ha spesso penalizzato a priori gli alpinisti non appartenenti all’élite. Non a caso, il Full Circle ha attivato anche delle campagne di raccolta fondi, invitando i cittadini a donare per offrire un contributo concreto alla scalata dei sogni.
I preparativi alla spedizione sono stati duri: sei arrampicate sul monte Kenya tra gennaio e aprile del 2021, poi due settimane in Uganda sul Ruwenzori, quindi tra luglio e dicembre negli Stati Uniti. Tanto serve per affrontare l’Everest.
Puntare in alto
Nel gruppo non ci sono sportivi alle prime armi. Sono tutti professionisti attrezzati e consapevoli dei rischi che un cammino insidioso di due mesi come quello in questione comporta. Nessuna incoscienza, dunque, solo una forte motivazione sostenuta da un legame profondo con la montagna.
In particolare, James Kagambi, 62 anni, arriva – ed è l’unico – direttamente dal Kenya, dove è considerato quasi una leggenda. Soprannominato “KG”, è stato il primo africano a scalare il Denali, in Alaska, nel 1989, e l’Aconcagua, in Argentina, nel 1994.
Kagambi ha un lungo trascorso personale nell’organizzazione di escursioni a contatto con la neve, il suo primo amore. Nel 2013 ha piantato la bandiera del suo Paese, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’indipendenza, sul monte Kenya. Adesso la sua aspirazione è riuscire a piantarne un’altra, quella dell’uguaglianza, nel punto più alto della Terra.
Cambiare la narrazione secondo cui l’Everest è solo appannaggio dell’alta società, sconfiggere gli stereotipi, rendendo possibile (e inclusivo) ciò che è apparentemente impossibile: è il cuore di un progetto che ha nella scalata il suo ideale compimento. Toccando la vetta per antonomasia, in breve, il Full Circle vuole ispirare chiunque si identifichi nell’iniziativa a puntare sempre in alto, nonostante le barriere. In montagna come nella vita.