Frankensteining: Jordyn Smith dà valore alla tendenza ad assemblare tessuti e oggetti di scarto, trovando il potenziale in un insieme sempre espandibile di pezzi insoliti.
A nessun oggetto si nega una seconda possibilità, una seconda vita, nemmeno a quello apparentemente più bizzarro. Questo concetto, partito dai piani più bassi dell’industria della moda, da piccoli brand di nicchia o emergenti, sembra piano piano entrare anche nei processi creativi di alcune delle maggiori firme.
Definivo il mio lavoro “un disastro”, ora lo chiamo frankensteining
dichiara la designer australiana Jordyn Smith al Coeval Magazine.
Il termine
Il termine quindi viene coniato quasi per sbaglio dalla giovane artista che, tentando di giocare sul nome di un proprio fallimento creativo, ha conferito uno status a ciò che era emerso dall’accostamento di tessuti, materiali e texture diverse. Questo geniale errore, che ha ribaltato la visione della ragazza nei confronti delle proprie creazioni, nasce dalla sua passione per la moda sostenibile e dall’utilizzo delle risorse locali. Per questo motivo i materiali di base sono scampoli, tende, fotografie, riviste, nastri adesivi e oggetti acquistati in negozi dell’antiquariato.
Lo stock principale a cui si affida? Gli armadi di famiglia, dai quali emerge una grande varietà materica.
La creazione
Il titolo della collezione, Fashion’s Prometheus, dal classico della Shelley, Frankenstein o il moderno Prometeo, incarna perfettamente il processo creativo.
A partire dalla sagoma di un indumento preesistente, tutti questi elementi vengono sovrapposti e incastrati per arrivare a un esito finale in equilibrio tra recupero del passato e visioni futuristiche. Emerge così chiaro il parallelismo tra il designer e lo scienziato pazzo, entrambi in grado di dare vita a una nuova creatura costituita da pezzi di scarto.
È questo tipo di impegno, che si richiede oggi ai brand. Difatti talvolta, quasi per comodità, questi preferiscono attenersi alla linea d’azione da sempre adottata, limitandosi a dipingere la propria reputazione come attenta alle tematiche “green”, ma l’apparenza non riflette la realtà. Tale fenomeno, denominato “greenwashing”, non è assolutamente nuovo. È già da qualche decennio che alcune aziende, di moda e non, occultano i propri processi lavorativi attraverso ingannevoli mosse di green marketing.
Brand a sostegno della sostenibilità
Senza demonizzare tutta l’industria della moda, c’è da ammettere che ci sono anche diversi casi lodevoli. Patagonia, azienda tessile americana sul mercato già dagli anni ’70, è uno di questi. Oltre a delineare una propria genuina identità green attraverso la produzione di indumenti in pile che sfruttano il riciclo di bottiglie di plastica e di nylon, richiama i propri clienti all’azione grazie all’inserimento di una sezione “attivismo” sul proprio sito.
Per nominare invece un brand più giovane, ma ugualmente degno di nota, abbiamo il caso di Avavav. La direttrice creativa del marchio, Beate Karlsson, afferma di servirsi delle stoffe di alta qualità scartate dalle grandi case di moda e destinate alla discarica come base di partenza da cui sviluppare i pezzi delle proprie collezioni.
Tornando al concetto di frankensteining, l’intenzione che vi sta dietro è quella di accendere una maggiore consapevolezza riguardo a ciò che si indossa e alla provenienza di ogni dettaglio che costituisce un indumento. Inoltre la commistione di consistenze, forme e materiali profondamente differenti e provenienti da realtà diverse conferisce unicità e originalità ad ogni pezzo. In questo modo si viene a formare un quadro creativo e variegato che però considera, in termini di risorse, i limiti del nostro pianeta.