Vi sveleremo i richiami e i collegamenti presenti tra Frankenstein e la natura, analizzando questo capolavoro della letteratura inglese.
Sbarazzandoci dei canoni abituali con i quali si leggono solitamente i romanzi, proviamo ad analizzare il capolavoro di Mary Shelley, Frankenstein. Un romanzo che ha messo in luce temi estremamente innovativi per l’epoca, ha sovvertito le regole, ma è anche intriso di una sensibilità sconvolgente. Frankenstein è un romanzo tristemente premonitore. Fa riferimento infatti a problemi come quelli della salvaguardia ambientale e del cambiamento climatico, rendendo il rapporto tra Frankenstein e la natura controverso ed interessante.
Mary Shelley era critica verso l’industrializzazione e il progresso scientifico. Per questo motivo, come si legge in The Workshop of Filthy Creation: A Marxist Reading of Frankenstein: “Il mondo di Frankenstein è un mondo senza industria, un mondo rurale dominato da scene di sublime bellezza”.
Inoltre, non a caso, il romanzo è ambientato principalmente all’aperto, evidenziando la volontà della scrittrice di rappresentare un mondo più a stretto contatto con la natura. La sensibilità ambientale di Shelley però non è superficiale e volta soltanto alla celebrazione della natura in sé, ma cela inquietanti riferimenti al difficile momento storico che il pianeta stava attraversando.
1816: l’anno senza estate
Frankenstein nasce nel 1816, un anno conosciuto dagli storici come “l’anno senza estate” o “1800 and Froze to Death” (“1800 e si moriva di freddo”). Gelo atroce e cieli bui si susseguivano senza sosta, provocando devastazione di raccolti e grande povertà. La scrittrice racconta di aver concepito il romanzo proprio in quell’estate, trascorsa insieme a suo marito ed alcuni amici in una casa di Ginevra. A causa della pioggia incessante, erano soliti trascorrere molto tempo in casa, dove potevano dedicarsi a scrittura e dibattiti. Se però un caminetto, del tè inglese e della pioggia possono sembrare uno scenario perfetto per scrivere, in realtà costituivano un segnale decisamente preoccupante dal punto di vista climatico . Saranno proprio quell’angoscia e quella preoccupazione a suggestionare l’autrice.
Molti studiosi, tra cui la vulcanologa Micol Todesco, sono concordi nell’affermare che le cause del brusco cambiamento climatico fossero da attribuire all’eruzione del Monte Tambora in Indonesia, avvenuta nel 1815. Il vulcano, alto più di quattromila metri, dormiva da un migliaio di anni quando, improvvisamente, nell’aprile del 1815, eruttò per tre giorni consecutivi. La portata dell’eruzione fu enorme e causò circa 60 mila vittime.
Dopo l’evento, la circolazione atmosferica venne notevolmente alterata su scala globale e si crearono le condizioni che trasformano il 1816 nell’ “anno senza estate”. Gli effetti sulla popolazione furono devastanti. In un paio di anni, la scarsità del raccolto e le epidemie portarono ad una crisi di sussistenza dalla portata massima, dove il tasso di mortalità cresceva di giorno in giorno.
Il clima di Frankenstein
Come influenzò tutto questo la scrittura di Mary Shelley? Nelle lettere di viaggio, così come nel romanzo, si trovano moltissime descrizioni di tempeste. Frankenstein e la natura appaiono sempre insieme. Ad esempio, in questo passaggio, la creatura viene ritrovata da Victor, lo scienziato protagonista, in una notte tempestosa.
Mentre guardavo la tempesta, così meravigliosa e tuttavia terribile, continuavo a vagare con passo svelto. […] Non appena dissi queste parole, scorsi nell’oscurità una figura muoversi furtivamente dietro un gruppo di alberi, vicino a me; rimasi immobile, fissandola intensamente; non potevo sbagliarmi. Il bagliore di un lampo illuminò l’oggetto e mi svelò chiaramente la sua forma, la sua statura gigantesca, e la deformità del suo aspetto, troppo orribile per appartenere all’umanità, mi rivelarono subito che era lo sventurato, il demone repellente al quale avevo dato vita.
Nel romanzo appare un enorme contrasto tra il mondo abitato dalla creatura e quello abitato dall’uomo. La tempesta sembra accogliere la creatura, come se fossero un’unica entità. Il mostro non ha una dimora e trova rifugio nella natura ed è proprio quest’ultima ad occuparsi di lui e a nutrirlo.
Il mostro resiste al freddo e al ghiaccio ed è in grado di scalare le pendici delle montagne con gran facilità. Conoscendo i limiti dell’uomo, la creatura lo sfida più volte: “Seguimi; cerco i ghiacci eterni del nord, dove sentirai la miseria del freddo e del gelo, al quale sono impassibile”.
Frankenstein e la natura sublime
Lo studioso Fred V. Randel, in Frankenstein, Feminism, and the Intertextuality of Mountains, mette in evidenza il ruolo interpretato dalle montagne. Sostiene che Shelley si sia ispirata sicuramente ai poeti romantici inglesi Coleridge e Wordsworth, celebri per le loro esperienze sublimi vissute tra le montagne. Ma quest’ultime potrebbero essere un’allegoria della sterilità e inadeguatezza di Victor come padre. Lo scienziato ha infatti creato il mostro per poi abbandonarlo. La descrizione di un paesaggio con forme falliche, come le cime delle montagne, sottolineerebbe questo aspetto. Inoltre, gli effetti negativi della riproduzione artificiale appaiono come un atto di usurpazione del ruolo femminile e della gravidanza naturale.
Anche la scelta dell’Artico, ambiente prevalente nella narrazione, è da intendersi come ideale, perché è il luogo sconosciuto e incontaminato per eccellenza. In contrasto con tutto ciò, l’ambiente artificiale, dove abita l’uomo, è claustrofobico. Victor sembra intrappolato all’interno del laboratorio, della biblioteca e del carcere: luoghi oscuri che lo imprigionano, fisicamente ed emotivamente. La stanza in cui compie gli esperimenti è descritta come “una camera solitaria, o meglio cella, all’ultimo piano della casa, e separata da tutti gli altri appartamenti da un corridoio e da una scala”. La camera di Victor è un luogo di totale isolamento dal resto del mondo e dagli affetti della vita: un luogo arido che non gli permette nemmeno di percepire lo scorrere del tempo.
Tuttavia, la natura nel romanzo non è confortante, ma sublime. Edmund Burke definisce il sublime come “tutto ciò che è atto in qualsiasi modo ad eccitare l’idea del dolore, e pericolo”. L’oscurità e la vastità della natura provocano stupore. Questa sensazione, in cui tutte le emozioni sono sospese, è completamente rivolta verso l’oggetto di contemplazione. Victor incarna l’idea romantica dell’incertezza dell’uomo davanti alla natura, che sarà perfettamente ripresa da Giacomo Leopardi in Dialogo della natura e di un islandese.
Da sempre l’uomo cerca di capire le ragioni dell’infelicità umana, di cui la natura sembra essere l’unica responsabile, per poi scoprire di essere lui stesso l’artefice del suo male. Per Mary Shelley è l’uomo, una goffa creatura perennemente fuori luogo, ad essere il vero mostro del romanzo. La natura, stanca e sfruttata, tenta semplicemente di ribellarsi al suo dominio.