François-Xavier De Maistre: “Il lebbroso della città d’Aosta”

Dario Arkel

Di Dario Arkel

 

Pubblicato in Italia nel 1951, dalla BUR, il testo, che si avvale della traduzione di Alvise Zorzi, risulta delicato alla lettura, e offre una riflessione profonda sul dolore e sulla gioia di vivere.

La storia è vera e si svolge nell’anno 1797. Un lebbroso era stato rinchiuso nella Torre detta dello spavento, tuttora visibile in Aosta: su di essa è stata posta una targa a ricordo del libro di De Maistre e dell’uomo sofferente. Da molti anni questo edificio è denominato Torre del Lebbroso.

Il Lebbroso era Pier Bernardo Guasco, di Oneglia.

Antefatto

Un ufficiale, di passaggio ad Aosta, ammirò un bellissimo giardino. Spinse il cancello e un uomo vestito poveramente, appoggiato ad un albero, immerso in una profonda meditazione, gridò: “Chi siete, che cosa volete da me?” L’ufficiale rispose, e il Lebbroso cercò di allontanarlo rivelando il suo volto orribilmente piagato. L’ufficiale, ancora più incuriosito, decise di restare egualmente.

            Solitudine

Camminando nel giardino, il Solitario gli offrì dei fiori, osservando di non toccarli mai per non infettarli. L’ufficiale apprezzava il raccoglimento e la solitudine di questo rifugio. “Siamo in città, e ci si crederebbe nel deserto”, disse, e il Lebbroso rispose: “La solitudine non si trova sempre nel cuore delle foreste o tra le rupi. L’infelice è solo dovunque”.

            Il tema della solitudine ricorre evolvendosi verso la ricerca della postrema felicità. Sembra impossibile che un uomo terminale, senza poter vedere né dialogare con nessuno, trovi la felicità. La sua ricetta è coltivare l’essenziale. Il colloquio con se stesso e con la natura lo sostiene e lo ravviva, rendendolo più umano di chiunque altro: la sua è la libera gioia del respirare. Questa solitudine riporta, per contrasto, alla solitudine del boia di Joseph De Maistre.

Respirare e osservare

Vi è d’altronde, nell’infimo stadio della sventura, un godimento che la maggior parte degli uomini non può capire, […] quello di vivere e di respirare. Io passo giornate intere, nella buona stagione, su questo spalto a godere dell’aria e della bellezza della natura: allora tutte le mie idee sono vaghe e indecise; la tristezza ristagna nel mio cuore senza opprimerlo; questi diversi aspetti fanno parte di me stesso, e ogni luogo è un amico che ritrovo ogni giorno.”

            “…Ogni sera, prima di ritirarmi, saluto i ghiacciai di Ruitorts, le oscure foreste del monte San Bernardo, e le vette bizzarre che dominano la valle di Rhème. Il grande spettacolo delle montagne si impone ai miei sensi. […] In questo vasto scenario che mi circonda prediligo il romitorio di Charvensod. Isolato in mezzo ai boschi, accanto a un campo deserto, esso riceve gli ultimi raggi del sole. […] (là) il mio sguardo e la mia immaginazione trovano riposo.”

Il ricovero dei pellegrini, solitari per scelta, è la sua meta. Si immagina sano a meditare, ri-conoscendo gli uomini soltanto sfiorandoli, come se l’anima fosse la finestra dalla quale si osserva amorevolmente quanto è vivente.

Alla considerazione dell’ufficiale circa la durezza della vita mondana, il Lebbroso si rifiutò di credervi. Immaginava una gaia comunità, colmata da salute, giovinezza e fortuna. Gli uomini per lui correvano in boschi più verdi e freschi di quelli sotto i quali lui cercava l’ombra, o venivano illuminati da un sole più brillante del suo, e “La loro sorte mi sembra tanto più degna di essere invidiata quanto più è miserabile la mia”.

L’amore e Dio

In primavera veniva dal Piemonte un dolce vento: il Lebbroso allora fuggiva nella campagna per respirare più liberamente. Evitando di essere visto “da quegli stessi uomini che desidero incontrare. Dall’alto della collina, […] ben nascosto, poso lo sguardo sulla città di Aosta: vedo allora i suoi felici abitanti; tendo loro le mani gemendo, e chiedo loro la mia parte di felicità. […] Ho talvolta stretto tra le braccia gli alberi, pregando Dio di animarli per me, e di darmi un amico. Ma gli alberi sono muti: non hanno nulla in comune col mio cuore”.

Il dio del Lebbroso è il suo interlocutore. L’albero è l’abbraccio a se stesso frutto dell’immaginazione: il gioco dell’impossibilità magica, a guisa di quanto i bambini fecondano attraverso la creatività.

            Il contatto fisico e il senso di colpa

Ascoltate le sue parole, l’ufficiale vorrebbe stringergli la mano, ma il Lebbroso rispose: “Un simile piacere mi sarebbe stato concesso per la prima volta: nessuno mi ha mai stretto la mano”.

Torturato dalla sofferenza, il Lebbroso cominciò a raccontare i suoi incubi ad occhi aperti, una sensazione talmente tangibile da ricondurre i ciclici episodi dell’insonnia alla morte della sorella, affetta come tutta la sua famiglia dalla mortale malattia.

La sera, quando innaffiavo il giardino, ella passeggiava talvolta al tramonto, qui, dove stiamo intrattenendoci, e vedevo la sua ombra passare e ripassare sui miei fiori.”

            Un fiore sfogliato bastava per infondergli la gioia di saperla in vita. Dopo la morte della sorella, il movimento indovinato intorno a lui era scomparso e il sentierino che portava al boschetto preferito, era sparito sommerso dall’erba. Ricordava le attenzioni della debole creatura verso di lui, il fratello più robusto ma egualmente condannato. Non vi è limite all’affetto di una sorella, spiega il Lebbroso, e la tenerezza è inarrivabile. Condividere il dolore acuisce la lievità dei passi, sorvola sulle carezze mancate, riporta al peso sostenuto dalla fede in noi stessi rendendola leggera. È l’ebbrezza del respirare di chi prova ancora stupore per quanto siamo e per quanto ci circonda.

Un altro evento mostra l’impotenza del Lebbroso e il suo senso di colpa. Un piccolo, brutto cane, scacciato ovunque, aveva trovato rifugio nella Torre e il suo affetto. Quando la sorella morì, questo spaurito animale, chiamato Miracolo, era rimasto con lui. Era giocherellone, metteva allegria vederlo correre e giocare. Però, certe volte, scappava in città. Fu riconosciuto e additato come il cane del Lebbroso, e la municipalità decise di abbatterlo.

I soldati accompagnati da alcuni cittadini, vennero per eseguire quest’ordine crudele. Gli misero la corda al collo in mia presenza, e lo portarono via. Quando giunse alla porta del giardino non potei impedirmi di guardarlo ancora una volta: […] volgeva gli occhi verso di me per chiedermi un soccorso che non gli potevo dare. Lo volevano annegare in Dora; ma il popolaccio che l’aspettava fuori lo massacrò a sassate. Udii le sue urla, e ritornai nella mia torre più morto che vivo; le ginocchia tremanti non mi reggevano più: mi lasciai cadere sul letto.

            Disperazione e ritorno al respiro

Rifletteva sulla sua impotenza di fronte alle ingiustizie, quando, intorno ai due bossi che chiudono la siepe, vide due giovani sposi. I loro bei corpi, le deliziose movenze ispirate dalla contentezza, il loro abbracciarsi, gli strinsero il cuore. Li seguì con lo sguardo, e d’improvviso li vide raggiunti da familiari festosi: vecchi, donne, fanciulli stavano ora loro intorno, avvolti da un’aura gioiosa, sfavillante.

Il Lebbroso si sentì come Giobbe l’unico infelice. Pensieri angosciosi lo portavano a domandarsi perché fosse nato e perché la natura fosse così matrigna con lui. Deciso a farla finita, trovò per caso una lettera lasciata dalla sorella:

“L’ultimo mio desiderio fu che tu potessi vivere e morire da buon cristiano”.

            Leggendo queste parole tutto quanto aveva vissuto gli apparve allora come la nuvola di un sogno, e levò lo sguardo al cielo stellato. Comprese che la gioia, unica e vera, era il respirare l’aria che gli permetteva di osservare il mondo, ancora, ancora…

 

            Una solitudine dolorosa e felice

Terminato il racconto, il Lebbroso si coperse il viso con le mani; quindi si alzò e disse:

            “Straniero, quando il dolore e lo scoramento vi aggrediranno, pensate al Solitario

della città di Aosta; la vostra visita non sarà stata inutile”.

            Alla reiterata richiesta dell’ufficiale, strinse la sua mano guantata. Ma non volle più avere

niente a che fare con lui: “Perché crearmi illusioni? Non debbo avere altra compagnia che la mia,

altro amico che Dio[…].

            Addio per sempre, siate felice…!”

            Il viaggiatore uscì.

            Il Lebbroso chiuse la porta e tirò il chiavistello.


 

[Nota: Questo racconto non abbisogna ulteriori commenti. Vale la pena, per correttezza, affermare che la sua lettura toccò la sensibilità del fratello Joseph, che incoraggiò Xavier a proseguire nella scrittura.]

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